di Teresa Scarcella
FIRENZE
Il rosso scarlatto della divisa è il colore preferito di Nora, lo indossa anche in borghese e basta vedere la fodera del computer o quella delle cuffiette. Fare servizio in Misericordia, che sia volontariato o lavoro, è una scelta di vita. Deve esserlo, altrimenti si fa presto a dire basta, soprattutto di fronte ai rischi. Invece Andrea, Martina, Veronica e Nora hanno tra i 20 e i 30 anni di esperienza alle spalle, tra alti e bassi. I primi due sono dipendenti, Veronica è una docente universitaria, Nora è un’impiegata.
Ore 23.00
Sono le 23 di mercoledì sera quando, a fatica, la pesante porta della Misericordia ai piedi del Duomo si spalanca. Loro sono nell’atrio, si preparano al servizio notturno di emergenza/urgenza e intanto addolciscono il palato con un po’ di crostata, comprata al supermercato. "Non è un granché infatti". La sede storica è suggestiva, ricca di passato, legno e marmo, soffitti alti e affrescati. Di notte incute soggezione, anche perché "c’è chi dice ci siano i fantasmi, ma non ne parliamo perché Martina ha paura". Si prendono in giro e si provocano come tra fratelli e sorelle. "La squadra solitamente la formiamo noi, in base al feeling, alla fiducia". Fondamentali quando sei in servizio, soprattutto nelle emergenze urgenze, dove tutto è imprevedibile. "Facciamo una media di 9/10 uscite in 12 ore, anche in mezzo alla settimana. Da una certa ora in poi capitano intossicazioni alcoliche o da altre sostanze. Ora è il periodo della febbre, in ogni caso non esistono chiamate rifiutate".
Ore 24.30
La sirena non ha ancora interrotto le chiacchiere. "Strano, non siamo abituati a questo silenzio". La Misericordia per Nora è stata una salvezza, "vivevo un periodo complicato, mi bullizzavano. A 16 anni la confraternita mi ha accolto senza giudizi, senza barriere. È diventato il mio posto nel mondo". Per Veronica l’episodio scatenante è stato il terremoto di Assisi del ‘97: "Vedendo quelle immagini mi sono chiesta: perché non sono lì?". Una voglia di aiutare, di rendersi utile che secondo Andrea, il più navigato, "si trova sempre meno tra i giovani, affascinati dalla divisa e dalla sirena, ma senza una reale motivazione". In tanti si sono avvicinati nel periodo del Covid, "era un pass per uscire di casa", alcuni sono rimasti, altri si sono persi, ma è da sempre così. "È una crisi che vive tutto il mondo del volontariato". Il soccorso a maggior ragione, perché porta con sé tante complessità, come guardare la morte in faccia, a volte anche in occhi amici. Contro la tragedia devi per forza alzare uno schermo, mantenere le distanze, anche se poi qualcosa riesce comunque a insinuarsi e a rimanere. "Accadono anche cose belle, a volte buffe, si ride. La maggior parte degli interventi finiscono bene".
Ore 1.15
Tutto tace. "I rischi ci sono, fanno parte del gioco. Si entra in casa della gente senza sapere cosa si trova. Se il pericolo è accertato dobbiamo aspettare le forze dell’ordine, altrimenti si entra e si scopre lì per lì. Prima c’era meno preoccupazione, perché c’era più rispetto. Ora capita che i pazienti ci diano ordini, avanzino pretese, alzino la voce. Si ricevono insulti, minacce. Bisogna stare attenti a tutto, anche a come ti poni". A questo punto ci si può concedere un po’ di relax. Mentre Martina cerca riposo alla sua postazione, con un orecchio al telefono, con gli altri si scende nella saletta al piano inferiore. C’è un lungo divano a ’L’ e due letti a castello. Ci si stende un po’, non per molto.
Ore 1.48
La sirena suona e Martina chiama. "Eccoci". Il tablet si illumina: 30enne, straniero, cosciente, codice verde, neurologico. Uno scatto, giacche addosso e saliamo in ambulanza, sulla ’Bravo’. Le ruote sui sanpietrini, in velocità, mettono a dura prova l’equilibrio. Questione di abitudine. Ci si rannicchia sul sedile per proteggersi dal freddo, mentre le mani trovano riparo nei guanti in lattice. Al portone c’è un ragazzo, il nipote del paziente. Non ci fa entrare in casa, lo zio scende da solo, muove la testa in modo continuo, sembra un tic, e ha un dolore lancinante. "Cosa senti?", lui non risponde, sia perché non parla bene l’italiano, sia perché si sta agitando. Chiede a ripetizione di essere portato in ospedale, talvolta alzando la voce, "Mi sento morire, partiamo altrimenti vado via". Ma ci sono degli step da fare prima e i soccorritori provano a seguirli: identificazione e parametri. "Hai preso qualcosa?", "Ho fumato una canna", "Altro?". Questa domanda per dieci volte piomba nel vuoto. Il nipote si volta e va via, mentre lo zio continua ad agitarsi. "Ho bisogno di saperlo, è per il tuo bene". Steso sulla barella, con le mani alla testa, interrompe la resistenza: "Ho tirato coca per tre giorni". Due minuti per le vie del centro e siamo a Santa Maria Nuova, ora è in mano loro.
Ore 2.18
Il bip dell’ambulanza in retromarcia rimbomba sotto la cupola del Brunelleschi. Siamo di nuovo in sede. "Di persone poco collaborative ne troviamo tante. Ma si cerca comunque di instaurarci un dialogo. Si torna in saletta?"
Ore 2.26
A dire di no è sempre la sirena. È lei che comanda. Sul tablet appare la scheda: "Intossicazione etilica. È per stomaci forti". In via Palazzuolo la sirena illumina i volti dei ragazzi ai lati della strada, con i bicchieri in mano. Sono perlopiù studenti americani. Uno di loro è accasciato per terra. "Ehi, come va?". La reazione è rallentata, ma immediata. "Puoi alzarti e aprire gli occhi? Che succede?". Il giovane, americano, 20 anni, dal viso pulito, è cosciente. "Troppo alcol". Accanto c’è il titolare di un locale, è stato lui a chiamare i soccorsi. A fatica e con gli occhi chiusi riesce a rimettersi in piedi, non prima di cedere alla nausea. Coperta termica, lenzuolo tattico e viene fatto salire in ambulanza, direzione Santa Maria Nuova. Si cerca di tenerlo sveglio, parlandoci. È a Firenze per studio, è uscito con gli amici ma la vodka ha avuto la meglio. "Questi interventi capitano tutte le sere".
Ore 3.30
Uno spuntino notturno aiuta a rimanere svegli, dà energia. Il panino col salame avanzato dalla cena "è bono anche a quest’ora".
Ore 4.00
La divisa presa in prestito viene rimessa apposto, mentre loro la tengono addosso. Hanno ancora tre ore di servizio davanti: "Buon lavoro", "No, non si dice". Nel buio della saletta relax risalta solo quel colore. Il rosso scarlatto.