Pontini
Dire basta, in realtà non basta affatto. Scendere in piazza e urlare tutta l’indignazione che si ha in corpo, nemmeno. Gridare che non si può morire di lavoro, di per sé non aiuterà Gerardo, Vincenzo, Carmelo, Davide, Franco a non morire un’altra volta. Moriranno di nuovo se una voce per salvarsi la vita non ce l’hanno. Una voce per affermare che c’ è un problema di sicurezza nel luogo dove lavorano e quindi occorre fermarsi prima.
Morti a Firenze, per di più, una città che da sempre dovrebbe evocare diritti. E morti di una morte orribile che non si racconta per non far diventare anche la tragedia di un lavoratore uno show mediatico per sensibilità sbilenche. Ma chi vuole può almeno immaginarsi cosa accade a un miliardo di gradi nella fireball, come la chiamano gli esplosivisti e perché ci sia stato bisogno del riconoscimento con il dna dei familiari. E’ questo il perimetro del dramma andato in scena lunedì mattina in via Erbosa a Calenzano, deposito Eni, dove i camionisti si approvvigionano ogni giorno, e più volte al giorno, per non lasciare a secco intere città. Lo fanno da soli, senza alcun controllore dell’impianto, che potrebbe almeno accorgersi e intervenire se qualche manovra si sta compiendo in maniera sbagliata o insicura, con quella prassi che diventa a volte deleteria. L’assuefazione a un rischio che improvvisamente si declina in morte. Una strage che poteva addirittura avere conseguenze peggiori, ricordiamolo. Possibile che in un’epoca nella quale si parla troppo, si scrive troppo ma sui social, si posta troppo, e si legge poco (comprese denunce e regolamenti), i rischi per la vita dei lavoratori in realtà possano restare muti?
Possibile che il pericolo scaturito dal fatto di caricare carburante mentre sono in corso lavori di manutenzione - almeno stando alla direzione imboccata dalle indagini - non fosse arrivato a chi avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi? Non solo quel lunedì, ma sempre.