Firenze, 14 gennaio 2025 – “Non era un mostro e neanche un violento. Mio zio è innocente”. Ne è convinto Paolo Vanni, nipote di Mario, che crede fermamente che lo zio sia vittima di una vicenda giudiziaria piena di incongruenze. Condannato al carcere a vita per quattro dei duplici omicidi attribuiti al mostro di Firenze, Mario Vanni era uno dei “compagni di merende” insieme a Giancarlo Lotti, termine tra l’altro coniato inconsapevolmente da lui stesso durante il processo Pacciani. Quando quello zio, che gli lasciava un “soldino” quando da bambino andava a trovarlo in collegio (“150, 200 lire”) finì nel mirino degli inquirenti, Paolo era sulla cinquantina, gestiva una trattoria in San Frediano.
Oggi la sua memoria gli gioca brutti scherzi, non ricorda bene quei momenti in cui la sua famiglia si ritrovò coinvolta nel caso più macabro della storia di Firenze, ma ci sono cose che non ha rimosso: “La notizia ci sorprese molto. Mio zio era docile, pacato, un passivo - racconta - se qualcuno provava a mettergli le mani addosso, non reagiva. Non ce lo vedo a fare quello di cui è stato accusato, non avrebbe potuto fare male neppure a una mosca”.
Le due famiglie vivevano distanti, una a San Casciano in Val di Pesa, l’altra a Firenze. Il loro non era un rapporto quotidiano, ma si vedevano, trascorrevano del tempo insieme, con momenti di convivialità: “A mio zio piaceva bere il vino, ogni tanto alzava un po’ il gomito e si beveva anche insieme qualche volta - ricorda Paolo - da ragazzo gli avevano messo l’appellativo di “torsolo“, la parte della mela che non si mangia, perché era un po’ tardivo, era ignorante. Non ho mai conosciuto né Pacciani, né Lotti, ogni tanto li sentivo nominare da mio zio, ma nulla di che”.
Ma Paolo Vanni, che ha ammesso di non aver seguito le varie fasi giudiziarie e di non aver mai letto le carte del processo, va oltre e azzarda addirittura una sua ipotesi sull’identità del mostro: “Mi sono fatto un’idea su chi potesse essere e credo sia ancora vivo. Mio zio, facendo il postino a Mercatale, lo avrà conosciuto”.
Per anni, la figura di Vanni è rimasta nell’ombra, mai neppure lambita dalle indagini che la “Sam”, la squadra anti mostro appositamente costituita per dar la caccia a quel killer inafferrabile, concentrò su Pacciani negli anni ’90.
Già, perché che dietro ai delitti potesse esserci un gruppo, non era mai stato preso in seria considerazione fino a quando, nella sentenza del primo novembre del 1994, la corte d’assise presieduta dal giudice Ognibene affiancò al contadino di Mercatale alcune figure che lo avrebbero aiutato, almeno in alcuni delitti.
Ecco allora emergere Vanni, colui che con Pacciani aveva condiviso soltanto “qualche merenda”, come ebbe lui stesso a dire testimoniando al processo. Chissà, forse Vanni con quelle parole e con quel suo fare incerto, seduto su una sedia per lui scomodissima, nel clima di colpevolismo imperante di quell’epoca, cominciò a scriversi da solo la futura condanna.
Vanni, scomparso nel 2009, è diventato immortale sui social. Avanti con gli anni e ormai poco lucido, deve questa perpetua popolarità (esiste in commercio perfino la sua statuetta in plastica) alle sue invettive nei confronti dei giudici e del pm Canessa gridate in pigiama, nei suoi inni al duce che, alle cene del paese gli valevano un invito anche da parte di persone di estrazione sociale più elevata della sua. Per qualcuno poteva essere il “secondo livello“, oggi invece non si sa più neanche se si è capito il primo.