La musica della ‘Messa in tempo di guerra’ di Haydn, che ha accompagnato in Duomo la celebrazione della solenne liturgia di Ognissanti, fu composta nel 1796, quando Napoleone invadeva l’Austria e l’Europa. E oggi, pur cambiando gli scenari, i conflitti sono sempre presenti. Causano vittime innocenti e costringono interi popoli alla fuga. Il brano di Haydn, eseguito dall’Orchestra e dal Coro del Conservatorio Cherubini di Firenze diretti dal maestro Alessandro Pinzauti, ha fatto da spunto al commento del cardinale Giuseppe Betori alle Scritture e alle Beatitudini di Matteo. Un dialogo con i fedeli che non ha trascurato la violenza e la criminalità, evidente anche nei nostri quartieri come Rifredi, l’Isolotto e le Cascine solo per citare gli ultimi episodi.
"Essere operatori di pace, non va confuso con l’essere pacifici o pacificatori: i primi guidati dall’istinto egoistico di vivere in tranquillità; i secondi che si avvalgono del loro potere per imporre la pace agli altri secondo propri schemi e proprie esigenze. - ha scandito l’arcivescovo - Va detto a riguardo degli scenari di guerra nel mondo, ma anche nei contesti di violenza e criminalità che si stanno radicando nelle nostre strade: solo l’impegno a creare condizioni di accoglienza, conoscenza, condivisione, cura dell’altro può contribuire alla costruzione della pace".
Betori, nel suo argomentare, ha anche aggiunto che in un’"orizzonte di benevolenza e di umiltà si muovono la quinta e la settima beatitudine, che trasportano questo atteggiamento profondo dell’animo sul piano del concreto agire relazionale e ci invitano ad assumere comportamenti di perdono e a edificare rapporti di pace. E il perdono non può essere contrattato, ma va offerto in modo incondizionato".
"Celebrare con la musica della ’Missa in tempore belli’ - ha spiegato il cardinale - vuole esprimere anche la nostra partecipazione alla sofferenza di quanti vivono nelle guerre che continuano a sconvolgere la vita di uomini e popoli, in particolare in Ucraina e in Terra Santa".
Sofferenza sicura e incertezza del futuro difficili da accettare in questo mondo che "ha paura della morte e cerca quindi di esorcizzarla nelle tante forme di vitalismo e di salutismo - ci immaginiamo giovani per sempre pur quando gli anni passano - ma soprattutto ne vuole divenire egli stesso misura e padrone, secondo il volubile concetto di qualità della vita, che dovrebbe giustificare di poterla sopprimere prima della nascita o di spezzarne il corso naturale quando si dovesse fare troppo pesante, sostituendo alla cura della persona il suo abbandono". Temi che il cardinale Betori ha affrontato ieri pomeriggio nell’omelia proclamata al cimitero di Trespiano nella Solennità di Tutti i Santi e alla vigilia della Commemorazione dei defunti. "Il rifiuto della morte - ha proseguito l’arcivescovo - è diffuso nella cultura contemporanea e contrasta con la tradizione della Chiesa che agli inizi di novembre ci invita a fare memoria di coloro che ci hanno preceduto, oggi tutti i Santi, domani tutti i defunti, invitandoci a pregare per la loro salvezza eterna. Eppure, ciò che la cultura contemporanea vorrebbe negare, nascondere, la morte, costituisce una delle evidenze più forti dell’esperienza umana. Perché molto è incerto sul nostro futuro, ma una cosa è certa: la nostra vita prima o poi si concluderà e per tutti verrà la morte". Secondo Betori "occorre pur dire che se l’uomo di oggi si nasconde la realtà della morte, indietreggia pauroso di fronte al pensiero di essa, è perché ha perso la fede nella risurrezione, nella vita oltre la morte, quella fede che soltanto è capace di non lasciarci sgomentare".
Duccio Moschella