MARIANNA GRAZI
Cronaca

Vita da chirurga: "C’è ancora chi si stupisce se a operare è una donna"

"Signorina, può chiamarmi il dottore vero, che opera?" Elena Giacomelli, chirurgo specialista, dirigente medico del reparto di chirurgia vascolare dell’azienda...

"Signorina, può chiamarmi il dottore vero, che opera?" Elena Giacomelli, chirurgo specialista, dirigente medico del reparto di chirurgia vascolare dell’azienda...

"Signorina, può chiamarmi il dottore vero, che opera?" Elena Giacomelli, chirurgo specialista, dirigente medico del reparto di chirurgia vascolare dell’azienda...

"Signorina, può chiamarmi il dottore vero, che opera?" Elena Giacomelli, chirurgo specialista, dirigente medico del reparto di chirurgia vascolare dell’azienda ospedaliera universitaria Careggi di Firenze, di espressioni o domande come quelle se ne è sentite porre tante, spesso. Se tra i ranghi medici il gender gap tra strutturati è ancora ampio (secondo il ministero della Salute quasi l’80% dei chirurghi in Italia sono uomini, mentre le donne hanno prevalgono in generale tra i camici bianchi), anche discriminazioni e molestie tra le corsie sono diffuse. E non arrivano solo dai colleghi.

Nel suo percorso di specializzazione quante volte l’hanno chiamata ’signorina’ invece di dottoressa?

"In continuazione. Devo dire che non ho subito discriminazioni particolare quando ero specializzanda, se non quell’appellativo o la domanda ’Dov’è il dottore?’. C’è stato un episodio che ricordo bene, quando in sala una persona non dell’equipe ma che lavorava lì con noi mi disse: ’Le donne non devono stare al tavolo operatorio ma starci sotto. Forse comunque ne sento più adesso, da strutturato".

Cosa le dicono?

"Recentemente ’Voglio parlare col chirurgo, quello vero che opera’ e il mese scorso io e una mia collega abbiamo detto alla moglie di un uomo che lo dovevamo operare, lei ci guarda e ci chiede: ’Ma lo operate voi due?’ come se le sembrasse assurdo che due donne giovani potessero fare l’intervento".

Cosa prova in questi casi?

"Prevale la rabbia, la frustrazione, il sentirsi sminuita e l’aver lottato tanto per arrivare dove sono arrivata e poi non vederlo riconosciuto. Ma fa anche da stimolo".

Oltre a queste molestie c’è anche altro?

"Le interruzioni quando parli con familiari o pazienti che cercano sempre l’uomo oppure, se sono medici maschi, vogliono spiegarti le cose o dirle al posto tuo. O il cosiddetto manspreading, la tendenza ad ’allargarsi’ degli uomini, a occupare lo spazio altrui. Ecco, io agli specializzandi dico sempre: in sala si sta come a tavola, coi gomiti chiusi".

Qualcosa sta cambiando?

"Sì, devo dire che da una parte ho la fortuna di lavorare con tante donne, perché nel tempo la presenza femminile in reparto e nel mondo della chirurgia è aumentata; dall’altra ci sono, va ammesso, colleghi uomini illuminati che ci supportano in questa battaglia per la parità. Devo dire che il disagio maggiore per me deriva dai comportamenti dei pazienti e dai familiari, non degli altri medici".

Da dove partire per scardinare questa disuguaglianza?

"C’è bisogno di sensibilizzare non solo la popolazione, ma si deve partire dal mondo dell’educazione, dalla scuola di medicina e probabilmente anche prima".