Firenze, 26 gennaio 2025 – ‘Mio padre conservava una bottiglia di Cristal in frigo per festeggiare la morte di Gheddafi. Ma nel 2011 lui non c’era più, e a me vedere il cadavere del raìs esposto in pubblico mise tanta tristezza. Quella bottiglia è rimasta lì’. Roberto Naldi apre il cassetto dei ricordi. Insieme ad essi spunta l’amarezza per essere stato cacciato dalla Libia adolescente. E quell’esilio forzato è una cicatrice che fa male. La vita di Naldi, raccontata davanti a un caffè nella cucina della sua casa “nella Firenze che guarda al sole”, sembra contenerne molte di più.
Chi è l’ingegner Naldi, una vita in due continenti, famiglia di Marradi per parte di padre, siciliana di Modica dal ramo materno, natali a Tripoli?
"I continenti sono tre e in ognuno ho vissuto pezzi di vita. Nato e cresciuto fino a 17 anni in Libia. Mio padre c’era nato perché mio nonno era tesoriere della Banca di Roma mentre mia mamma andò dalla Sicilia quando aveva 5 anni. Poi l’Italia e l’America Latina: ho vissuto due anni in Venezuela e su e giù dall’Argentina".
A Tripoli che vita faceva?
"Bellissima. Scuola italiana, Scientifico. Poi nel ’70...".
Gheddafi vi caccia.
"Mi ero appena diplomato, eravamo in campagna a Greve in Chianti. Ricordo ancora le parolacce di mio padre quando la radio annunciò che Gheddafi aveva deciso di cacciare gli italiani, sequestrando loro i beni, le proprietà e congelando i conti".
Cosa faceva suo padre?
"L’imprenditore edile, dovette consegnare tutto. Per fare il trasloco si fece prestare soldi dagli amici. E poi organizzò il trasporto dei corpi dei nonni sepolti lì".
E lei non rientrò più a Tripoli…
"Mai più. È stato pesante e il governo non ci difese. Gheddafi decise che gli italiani nati in Libia non potevamo tornarci perché simbolo del colonialismo".
Ma ora potrebbe rientrare...
"Le faccio una domanda io: la giovinezza, la fanciullezza sono momenti belli, Tripoli era bella, si andava al mare, all’oratorio dei fratelli cristiani a giocare a calcio. Lì ho vissuto i primi amori, le prime feste, gli amici. Immagini di tornare in un posto e non trovare più nessuno, più niente di tutto ciò. Lei tornerebbe?".
Certo che no.
"E invece chiudo gli occhi e torno laggiù sul filo dei miei ricordi meravigliosi".
Gli amici, i compagni di allora li ha più sentiti?
"Sì, molti, la mia prima moglie era a scuola con me. A 60 anni, con le lacrime agli occhi un nostro compagno ci raccontò cosa accadde quando salparono le ultime navi. Lui rimase perché era figlio di un diplomatico. Andava in giro con la Bianchi azzurrina, passava sotto casa mia ma io non c’ero più a passargli i compiti dalla finestra. Improvvisamente non conosceva più niente e nessuno. E’ l’angoscia il vero motivo per cui non sono tornato".
Tra i suoi compagni c’era lo scrittore Roberto Costantini, che proprio a Tripoli ha ambientato alcuni romanzi.
"Sempre insieme, dalla seconda elementare fino a tutto il liceo. Non l’ho più visto per anni. Poi quando uscì il suo secondo libro andai a Milano alla presentazione. Io ero una cinquantina di chili in più, lui senza capelli, mi metto di lato prendo il microfono e mi guarda. “Scusa”, chiedo, “ma il cane era quello che ti ha morso?”. Ride. E da lì abbiamo ricominciato a vederci".
Anche sua mamma viveva a Tripoli, processata per immigrazione clandestina. Ha fatto il viaggio al contrario però…
"A 16 anni per l’esame di maturità mio nonno la rimanda con due sorelle (erano in 6) in Sicilia ma a luglio chiudono le frontiere e sono costrette a restare. Nel ’46, finita la guerra, gli inglesi non le vogliono far tornare, così salgono su un barcone di pescatori a Siracusa. Vicino alla costa le fanno buttare in mare, gli inglesi le mandano in campo di concentramento, condannate e liberate. A pensarci oggi viene da sorridere: clandestine in Libia".
Tornato a Firenze lei si laurea in ingegneria e?
"Faccio parte del primo nucleo di laureati in ingegneria perché prima a Firenze non c’era il triennio. Uno studio di ingegneria mi manda in Somalia per qualche mese, poi in Mauritania e arriva la proposta per il Venezuela".
Arriva l’era delle Cooperative.
"Ero socialista, con tanto di tessera e mi ero avvicinato al movimento cooperativo. Alla fine ero presidente di ItalConsCoop ma scoppia Mani Pulite".
E lei cosa c’entra?
"Come testimone, ero il presidente di Progetto mercati e mi interrogano, con arroganza. Ma il peggio arriva in assemblea: mi provocano. “E adesso senza Craxi come li porti i lavori?”. Non accetto quello sgarbo e mi dimetto".
Conosceva Craxi?
"Un po’. E Martelli, De Michelis".
Il ministro ballerino.
"Simpaticissimo ma … lasciamo perdere, sapeva che avevo vissuto a Caracas, una sera vengono tutte le grandi aziende al Country club. Andiamo a cena e al secondo mi avvisano che c’è la limousine che ci aspetta per una festa. L’ambasciatore non mi ha parlato per mesi".
Poi diventa Mister Aeroporti.
"Mi chiama il mio amico Gabriele Albertini, allora sindaco di Milano che con la Sea era socio al 34% di Aeroporti argentini. Succede un pasticcio: manda via tutto il management e nomina Giorgio Fossa ad e me vicepresidente. Io ho curato il recupero del contenzioso ma ho fatto far pace tra la Sea e Eurnekian. Ci eravamo scontrati ma poi abbiamo cominciato a collaborare".
E alla fine la Toscana.
"Il progetto originario fu del governatore Rossi ma anche Renzi era favorevole. Nel 2014 lanciamo l’Opa: prima compriamo alcune quote di Pisa dai privati, dopodiché puntiamo su Firenze. Ma c’erano parecchi contrari, faccio una trattativa all’ultimo sangue con i proprietari delle quote di Firenze, conosco Marco Carrai che era presidente di ADF Aeroporti Firenze e faccio l’accordo con lui, poi riesco ad arrivare al 51% su Pisa. E li è partita l’operazione della fusione: oggi è l’esempio italiano di sistema regionale".
Cosa è importante nella sua vita?
"La famiglia e gli amici. Ho un patto: mai più di 15 giorni in viaggio fuori casa e per me la parola data vale tanto. Me lo insegnò mio padre che per questo finì prigioniero degli inglesi: sei anni ai piedi dell’Himalaya. Ho tre figlie, due dalla prima moglie, e due nipotini. Con Stefania abbiamo una bimba, oggi di 25 anni! E poi..".
Prego, dica pure.
"Ho grande affetto per gli amici, da figlio unico cerco in loro fratelli e sorelle. Uno di loro è stato Fabio Picchi, prima di morire mi disse ‘sei il fratello che avrei voluto’. Anche per me è stato così".
Ha tempo per le passioni?
"Adoro cucinare, mentre i colleghi leggono il Financial Times, io mi immergo nella Cucina Italiana. Sono sempre stato una buona forchetta, quando ero magro i colleghi dell’università mi portavano a fare sfide epiche, chi perdeva pagava. Una volta eravamo vicini alla resa sia io che l’avversario, non ce la facevo più, dai primi ai dolci… spiazzo tutti e ordino una fiorentina, lui è crollato".
La musica altra passione.
"Suono la fisarmonica, mio padre non voleva che suonassi la batteria come “quei capelloni dei Beatles”. A Firenze avevamo un gruppo: i Lapido blues band. E poi sono un collezionista: dai sassolini ai soldatini. Ne ho 25mila".
Come vede la Firenze di oggi?
"Vedo la sua storia e la ritengo la più bella capitale europea. Ma ha un grande problema: la difficoltà nel fare le cose e, mettendo da parte l’aeroporto che è l’esempio più eclatante, ricordo che venne fatto un referendum perfino per cambiare la pavimentazione di piazza della Signoria. La città ha bisogno di una pianificazione urbanistica e di comunicarla".
Cento vite, tanti interessi. Come fa?
"Cerco di tenere tutto insieme. Il lavoro, la mia splendida famiglia. Adoro avere la casa piena di amici, piena di giovani. E’ la vita che mi corre incontro. Mia madre diceva che ero sempre a mio agio col principe e col povero ma la verità è che con il secondo riesco a stare sempre bene".