MARCO
Cronaca

Vita e morte di un uomo di campagna. Storia di attrazione e repulsione

Quando la vita di uno strano contadino finisce, nel protagonista si accende l’interesse morboso per la sua dimora

Vichi

Abito in campagna, davanti a un oliveto. La strada stretta che porta a casa mia è tutta in discesa ed è asfaltata fino al mio cancello, poi prosegue sterrata, piena di curve, fino a incrociare la provinciale. Lungo questa strada sterrata, trecento metri più in basso, c’è una vecchia casa colonica a due piani con un grande loggiato. Ci abita un tipo da solo, un vecchio contadino un po’ strano, grande e grosso, che da qualche anno ha un difetto a una gamba. Cammina con il bastone, non può più lavorare, e intorno alla casa i campi sono abbandonati da un pezzo. Vigne e oliveti da buttare via.

Lui lo chiamano il Troia, ha un carattere difficile, ce l’ha con tutti. Sotto il suo loggiato c’è un ammasso di roba che sembra sia stata scaricata da un camion tutta insieme. Montagne di giornali vecchi, mobili rotti, materassi arrotolati, scatole di latta, bottiglie di plastica, quadretti, specchi, telai di biciclette, vasi rotti, tegole e mattoni.

Sull’aia è tutto un correre di gatti e di galline, e si vede anche qualche coniglio. Per anni avevo visto legata a un albero una povera ciuca, magra e spellata. Il Troia la bastonava. Per anni, ogni volta che mi vedeva passare davanti a casa, il Troia si metteva a parlare e mi rincoglioniva di discorsi, non era possibile infilare una parola in mezzo alle sue.

A un tratto però mi tolse il saluto, ma non ho mai capito per quale motivo. Negli ultimi tempi, quando andavo a fare una camminata, passando davanti a quella casa cercavo di capire se il vecchio era come sempre seduto sotto il suo loggiato, a leggere dietro uno scudo di frasche che lo rendeva quasi invisibile. Mi sembrava sempre che non ci fosse, e invece quando arrivavo a pochi metri vedevo in mezzo alle foglie secche i suoi occhi da gufo che mi fissavano.

Lo salutavo con un cenno, e lui riabbassava la testa sul giornale senza dire nulla. Passavo oltre pensando a tutte le cose che si sapevano di lui o che mi aveva detto di persona. Era stato nella Legione, ma c’era chi giurava che non si fosse mai mosso dal paese. Aveva fatto il macellaio e il palafreniere, come diceva lui.

Nella sua fattoria regnava la corte marziale: chi uccideva veniva ucciso. Questo me lo disse proprio lui. Se un gatto mangiava una gallina veniva fucilato con la doppietta. Nel suo castello la Grazia non esisteva, solo condanne a morte. Una volta aveva ammazzato il suo cane perché abbaiava troppo e “rompeva i c...” a chi lavorava.

La ciuca era morta da un pezzo, meglio per lei. Quando era viva, tutti i pomeriggi si sentivano quei ragli disperati e spesso qualcuno aveva anche chiamato i carabinieri. Ogni tanto, di notte, il vecchio batteva sul fondo di un catino di ferro con due bastoni e i suoi urli rimbombavano in tutta la vallata, "comunisti di m...", e cose simili.

Altre volte passava pomeriggi interi affacciato alla finestra del primo piano con il fucile accanto, pronto a sparare contro qualsiasi cosa che gli desse il pretesto per farlo.

Passando là sotto era meglio sparire in fretta. La settimana scorsa ho saputo che il Troia è morto. I particolari non sono riuscito a saperli. Però mi è venuta voglia di andare a vedere quella casa dove non ero mai entrato. Ci sono andato subito. Camminando giù per la strada sterrata pensavo che in qualche modo era finita un’epoca. Ogni volta che muore un tipo mezzo matto finisce un’epoca. Avvicinandomi a quella casa ho notato subito che gli animali non c’erano più, nemmeno i gatti. Lungo un lato dell’aia, stesi su un filo di ferro, c’erano un paio di mutandone logore e una canottiera sbrindellata. Tutto il resto sembrava come prima, ammassi di detriti, erbacce e spazzatura degne di una casa abbandonata da vent’anni. Mi sono affacciato al loggiato, non mi ero mai spinto fino a quel punto.

Lo scudo di frasche era appoggiato al pilastro di mattoni. Attaccato a un filo rugginoso che pendeva da una trave c’era quello che restava di una vecchia aringa, cioè solo la testa, ormai diventata simile a un fossile.

Fino a qualche anno prima attaccato alla coda dell’aringa c’era un cartello: "L’ospite puzza". La porta di casa era aperta, sembrava che qualcuno l’avesse sfondata a spallate, forse erano stati dei ragazzi.

Camminando sopra i giornali vecchi mi sono avvicinato. Inchiodato sulla porta c’era un altro cartello: "Farò come avete fatto voi, vi vado in c...". Mi sono affacciato dentro casa, solo con la testa. Mi sembrava di profanare una chiesa.

(1-continua)