Firenze, 14 ottobre 2018 - Una storia di dolore, di sofferenza, ma anche di ingiustizia e di umana insensibilità. C’è tutto questo, e molto altro ancora, nella vicenda che ha per protagonista Claudio Ciai, tecnico di Telecom Italia che nel settembre 2010 rimase coinvolto in un terribile incidente. Era in autostrada durante una trasferta di lavoro, verso Seravezza, passeggero di un’auto aziendale. Quella terribile mattina del 15 settembre di otto anni fa, un camionista ucraino non si accorse della coda. E, senza frenare, travolse l’auto su cui viaggiava Claudio, che riportò fratture multiple e, soprattutto, delle lesioni al cervelletto. Da quel giorno, fino alla morte sopraggiunta nel marzo 2014, per la famiglia Ciai è iniziato un calvario di cui ancora non si vede la fine. A portare avanti la battaglia con la Fondazione Claudio Ciai è il figlio Francesco, giovane tenace e coraggioso, la cui vita è stata completamente stravolta da quel tragico evento.
“La mia è la vicenda di una famiglia che, di fronte a un dramma scaturito da un incidente sul lavoro, si è trovata completamente sola davanti a mille difficoltà burocratiche. A tutti potrebbe succedere quello che è capitato a noi. Per questo ho deciso di far nascere la Fondazione – dice Francesco -. La storia di mio padre non poteva finire nel nulla. Quindi, con tutte le mie forze sto proseguendo un lavoro per offrire sostegno a tutti coloro che si trovano ad affrontare il nostro stesso complicatissimo cammino”. “Dal momento dell’incidente – racconta il figlio di Claudio, - siamo entrati in un incubo burocratico che ci ha fatto perdere tempo prezioso per il recupero delle funzionalità di mio padre, che da quel giorno non è più riuscito a parlare, muoversi ed alimentarsi”. La famiglia si è dovuta trasferire prima a Pisa, poi a Volterra, dove esiste un ‘centro del risveglio’, e, per oltre sei mesi, addirittura in Austria. “Cercavamo le cure migliori. E tutto a nostre spese”, sospira Francesco. Poi, il ritorno a Firenze, la disperata ricerca di una struttura che l'ospitasse durante i lavori per rendere l’appartamento di famiglia abitabile anche da Claudio. Ma i vicini di casa si sono messi di traverso. Tanti soldi spesi per provare a installare un ascensore, ma la famiglia Ciai ha perso la causa contro gli altri proprietari. “Si è preferito non alterare l’equilibrio della facciata piuttosto che tutelare i diritti di un disabile”, allarga le braccia il ragazzo, oggi trentunenne. Così, Claudio non ha potuto mai far ritorno tra le mura domestiche. La famiglia si è dovuta indebitare per far fronte a tutte le spese, salite a oltre 300mila euro in questi anni. “Sembra incredibile, ma ancora l’assicurazione ci ha dato solo una piccola parte del risarcimento che ci spetta – prosegue Francesco -. Quei soldi sarebbero stati importanti quando mio padre stava male.
Assurdo poi che l’azienda per cui ha lavorato per più di trent’anni abbia pagato a mio padre solo due anni di malattia. Poi, dal luglio 2012 non gli ha più corrisposto lo stipendio, non consentendogli di accedere ad ammortizzatori sociali”. E l’autista del camion? Latitante dal giorno dopo l’incidente. Se all’epoca ci fosse stata la legge sull’omicidio stradale, sarebbe stato fermato. Invece, quest’uomo è tutt’ora libero di circolare e, probabilmente, mai pagherà per ciò che ha procurato. Francesco ha raccontato la storia in un libro, ‘La Strada della Dignità’.