MICHELE BRANCALE
Cultura e spettacoli

Le poesie "operaie" di Pinto per i lavoratori della Gkn

Trevisani gli dedica 'Il poeta scomparso e altre storie'

Silvano Trevisani (foto da Atelier Poesia)

Silvano Trevisani (foto da Atelier Poesia)

Firenze, 15 marzo 2025 - Ci si potrebbe chiedere se ha senso l’espressione “poeta operaio” o “operaio poeta”, espressivo della “letteratura operaia”. Non sarebbe dispiaciuta a Pasquale Pinto (1940 - 2004), che spesso è stato definito così e che nella vita lavorava all’Italsider di Taranto, con “un cuore dalla rilegatura antica”, che parlava “per tutte le foglie cadute sulla terra”, cantore degli “uomini che lavorano di notte / portano a spasso un odore di vento / che cerca di commuovere la compattezza della ghisa gialla di malumore / sotto le mille lastre del cielo”. Sensibile e un po’ scombinato, con poca cura della propria salute ma così capace di amicizia da lasciare tracce profonde, le stesse che hanno portato la sua voce a Firenze, lo scorso anno, grazie a un’iniziativa del Collettivo di fabbrica dei lavoratori della Gkn che hanno presentato ila raccolta La terra di ferro e altre poesie (marcos y marcos) a Firenze, presso il Circolo Vie Nuove.

“È stato davvero emozionante raccontare la fabbrica, Taranto, attraverso le parole di Pasquale Pinto”, ha commentato il curatore del volume Stefano Modeo. Pinto è stato anche protagonista di un curioso esperimento portato avanti dal giornalista Silvano Trevisani che gli dette una rubrica in versi sul Corriere del Giorno. Proprio Trevisani ha voluto in qualche modo omaggiare l’amico, con il libro Il poeta scomparso e altre storie, pubblicato da Puntoacapo, con postfazione di Mauro Ferrari. Due le sezioni. Nella prima l'autore ricerca Pinto negli spazi della città frequentati insieme o che hanno conosciuto la sua presenza: “C’è qualcuno che ricordi / Pasquale, un operaio che contava le ore a rime alterne? / … Del tuo amore / per una vita che ti ha ripudiato, per gli amici / che matto ti dicevano per non doverti capire”, “il tarlo che rodeva il tuo silenzio / terreo di segreti”. I versi che colpiscono di più sono proprio quelli in cui Trevisani descrive gli spazi in cui cerca l'amico (la chiesa, ad esempio, o i tavolini disertati dei bar, le scrivanie della redazione, che sono un modo in frammenti). Nella seconda sezione emergono due composizioni su una barbona e su una “pornodiva”, due scartati, che nelle loro parole richiamo indirettamente Cristo, il vero antivirus ai nostri tempi così violenti e individuali, dissipati, che forse, in filigrana, parla anche quando Trevisani, nel suo girare nella città alla ricerca di Pinto, spera “di trovare / tracce di perdono collettivo”, perché “le strade / sono sporche / della nostra diffidenza reciproca, nessuno più / appartiene a nessuno”. E’ una ricerca mendicante, volta a chiedere qualcosa e qualcuno che manca: “Elemosino / segni di speranza ai tavolini / disertati dei bar, dove esuli bicchieri / al fondo tinti da residui allogeni / giocano a scacchi con i posacenere”.

Lo spazio sacro è di “passaggio” nel senso più profondo del termine: “In chiesa / non so se ci trovavi Dio / e l’anima impiantavi in un albergo di preghiere / se sniffavi volentieri il che d’incenso / sferzava la tua solitudine di terra. Ci venivi / questo lo so, ad impiantare nuove situazioni / cercare nel mondo ciò che non gli apparteneva. / E così la poesia preghiera impenitente / ti dava un po’ di pace d’artificio. / Ma poi guardavi le vetrate / e ti perdevi nella polvere dei tuoi desideri, / di colori, / di sogni, / di sopori. La calma dei santi / ti ungeva del crisma della vita / a tornare nella strade per cercare / gli altri che pure erano il tuo limite. / Anche qui ti ho inseguito / troppo tardi, ma non abbastanza / per non sentire di te la nostalgia / che le parole aleggiano, preghiere / utili a darti appuntamento, dimmi: dove sei?”.