REDAZIONE FIRENZE

La Liberazione di Firenze riletta con gli occhi di Margherita Guidacci

Anna Maria Tamburini rintraccia uno scritto del '45 firmato con lo pseudonimo di Andrea Luti

Margherita Guidacci (dal sito web http://www.margheritaguidacci.it/)

Firenze, 25 aprile 2020 - In un articolo pubblicato nell'agosto 1945,  con lo pseudonimo Andrea Luti, su "Rassegna" (rivista culturale appena nata a Firenze), la poetessa Margherita Guidacci rievoca  l'esperienza del passaggio della guerra a Firenze. La studiosa Anna Maria Tamburini ha rinvenuto e pubblicato queste pagine nel suo 'Margherita Guidacci. La poesia nella vita (Aracne, 2019), frutto di dieci anni di ricerche.  Tamburini ha approfondito e ricostruito l'opera di Agostino Venanzio Reali e ha pubblicato le raccolte di poesia 'Colibrì' (FaraEditore, Rimini 2010) e 'A mio padre' (Helicon Edizioni 2014). Il volume su Margherita Guidacci si articola in 5 macrocapitoli, in cui sono raccolti saggi e articoli usciti a partire dal 2006: un breve profilo biografico, un più ampio excursus su lirica e poesia civile, il rapporto con la Sacra Scrittura con particolare riguardo alla letteratura sapienziale, il capitolo centrale 'Intelligenza d'amore' che rilegge il suo intero percorso, la poesia della fase ultima nel rapporto col mito. Il più ampio capitolo centrale analizza più da vicino l'opera prima, 'La sabbia e l'angelo', "perché  spiega Anna Maria Tamburini - è quella più innovativa, tanto nel panorama letterario in cui si colloca, quanto ancora ai nostri giorni; ed era quella meno indagata, della quale mancavano le fonti. Per questo ho cercato materiali sulla esperienza della guerra. Al Viesseux ho trovato un quaderno preparatorio della raccolta, contenente in embrione alcune delle Meditazioni e sentenze di cui si compone la prima parte. Il lavoro di indagine sulle fonti dovrà proseguire però intanto può essere utile tenere presenti questi primi abbozzi unitamente a due note in merito a due Epitaffi  - della seconda parte della raccolta - contenute tra le carte di un progetto editoriale rimasto inevaso e dal titolo 'Grande arco'".  Michele Brancale

Quello che segue è l'articolo integrale di Guidacci-Luti dell'agosto del '45, con il quale rileggere il tempo della guerra portata dal virus e quello liberato, celebrato nella festa del 25 aprile:

"Sebbene sia trascorso appena un anno, ci riesce difficilissimo e quasi impossibile rievocare la situazione dell'agosto del '44. Immagini più lontane e ormai totalmente indifferenti, sorgono molto più facilmente dalla nostra memoria. Non c'è da stupirsene. Il tempo non ha sempre lo stesso valore. Né la stessa durata. E non ha nemmeno una vera continuità. Il tempo diviso in unità uguali e che ugualmente si succedono, esattamente commensurabili in se stesse e nel loro ritmo, è un'astrazione come lo spazio della geometria. Il tempo reale, come lo spazio reale, è vario, fatto di acque e di isole, di rialzi e di avvallamenti, discontinuo. E se ai giorni dello scorso agosto non riusciamo a riportarci che in maniera scialba, se non riusciamo a rivivere, e sotto certi aspetti nemmeno a comprendere, a ricostruire nei dati elementari la vita di allora, è perché allora vivemmo realmente in un'isola del tempo, in una «durata» che non è quella attuale, ed a cui nessuna continuità ci rilega, poiché ce ne distaccammo violentemente, per una frattura. Oggi, volgendoci indietro, non sappiamo noi stessi dire con precisione cosa e come accadde: e se non fosse per un oscuro tumulto del sangue saremmo, di fronte a quel tempo, come i maravigliati abitanti di un altro pianeta, o lo guarderemmo già con gli occhi innocenti dei posteri. (Firenze - o meglio i suoi successivi spicchi - fu allora anche materialmente simile ad un'isola: un grande asilo di naufraghi in attesa che qualche nave finalmente li raccogliesse. Ma questo non è che un paragone, più o meno retorico, e l'altro, l'isolamento nel tempo, è invece un fatto vero e sostanziale, e in quelle circostanze, tragico: è perciò su di esse che voglio specialmente insistere). Quell'isola non fu certo edenica, e siamo ben contenti di esserne definitivamente lontani. Eppure col ricordo vorremmo rientrarvi, possederla, come si possiedono le «esperienze». Ma a quale guida possiamo affidarci per ritrovarla? L'intelligenza è impotente a ricondurci fin là. La sua vista si smarrisce in quel caos d'impressioni turbinanti. Come di fronte a un'elica che giri vorticosamente, essa non distingue più che un movimento senza vedere la figura che lo crea; e nell'ostinato fissarlo, anche quello scompare, per lasciar posto a un disco bianco di cecità.

L'intelligenza non può ricostruire ciò che non rientra nel suo dominio. Gli eventi che vivemmo sfuggivano ad una classificazione umana. E sfuggono ora alla memoria, ne traboccano, come traboccavano allora dalle nostre capacità di giudizio. Più che traversarli, ne fummo traversati: essi fluirono e rifluirono attraverso tutto il nostro essere - ne eravamo invasi, sommersi, circondati; e quello che potevamo contenere in noi era sempre un nulla in confronto a quello che rimaneva fuori e ci conteneva. Meglio quindi, come per i sogni, interrogare la memoria dei sensi: poiché dell'incubo più inafferrabile perdura la percezione sensitiva, l'impressione o passione come dicevano i medievali (termine quanto vero nel caso nostro). Lasciamo sdipanare al nostro corpo il filo dei suoi affanni, meno sproporzionati, per quanto atroci, degli affanni dell'anima. Poiché una cosa sola è certa: che vivemmo in una realtà disumana, e corpo ed anima erano soverchiati, ma la più soverchiata era l'anima. Chiediamo perciò la testimonianza dei nostri sensi ed elenchiamo alcune delle loro impressioni di stanchezza e di orrore: la promiscuità, il disagio fisico, nelle code e nelle case dove vivevamo in agglomerazioni inverosimili; un continuo e monotono traffichio, le materasse strascitate dai letti agli anditi e dagli anditi alle cantine, la secchia che saliva e la secchia che scendeva, le braccia che si spezzavano ad attingere e portare acqua; poi gli strazi infiniti della vista, dallo scempio della città allo scempio delle persone; gli strazi dell'udito, lo scoppio della cannonata in partenza e lo sgretolio della cannonata in arrivo (quella lacerazione di muri cui pareva corrispondesse, fin nei più lontani ascoltatori, una lacerazione della carne, come per una coltellata) gli spari dei fucili e delle mitragliatrici, gli urli, le preghiere, le strida attorno ai pozzi; musiche, perfino, di tanto in tanto, di qualche grammofono isolato, a completare la follia. I polmoni ricordano la loro agonia: l'aria greve di calcinacci e di sentori torbidi che pareva mai più dovesse sollevarsi dalle strade, la notte dell'esplosione dei ponti; il puzzo e il fumo che esalavano dai mucchi di spazzatura abbandonati a lato dei marciapiedi. Provammo sensazioni primordiali, la sete e la fame, ed elementari terrori. Ne facevano il triste inventario, la sera, le voci che si levavano dai giardini interni dei caseggiati, ove sembrava ormai concentrarsi tutta l'esistenza della città. Più tardi i passi pesanti delle ronde tedesche echeggiavano nelle strade deserte, e allora le persiane chiuse si gremivano d'occhi, e una tensione imponderabile si stabiliva, gli invasori volgevano di tanto in tanto sospettosi la testa come se sentissero chi li spiava nascostamente. Veniva poi la notte angosciosa; o il sonno greve, plumbeo, che arrivavamo a dormire in veri e propri inferni; e che era come una fuga, una reazione disperata dell'essere che cercava la propria salvezza nel nulla. Quello che il nostro corpo sofferse fu disumano ma narrabile. Ma al di sopra di tutto era l'oscura, inenarrabile sofferenza dell'anima. Soffriva per il proprio corpo conculcato, e per qualcos'altro. Soffriva per se stessa conculcata e per qualcos'altro. Per questa «altra cosa» non ha ancora cessato di soffrire. La guerra ha fatto gemere qualche atra cosa in noi e fuori di noi, oltre al nostro corpo e alla nostra anima, e non è cessato il gemito. Profonde radici dell'umanità sono state schiantate. Ma per noi di questa città, mai, ad ogni modo, come allora, tante specie di sofferenza conversero. E perciò mai come allora - poiché l'abisso chiama l'abisso - vi furono così importanti compensi. L'acqua, attinta penosamente a sorgenti di fortuna, era poi resa atroce dal sapore del cloro, eppure mai acqua giunse più gradita alle nostre labbra: e riscoprimmo la realtà dell'acqua. Nessun cibo fu mai mangiato più avidamente dello sciagurato cibo che cocevamo allora su qualche sciagurato fuoco. E riscoprimmo la realtà del nostro cibo. Grano, farina, pane ripresero il loro posto in un'esatta gerarchia, che, senza esser simbolica, non aveva però solamente un significato materiale: forse la gente non comprese mai l'avvenuto sovvertimento di valori come quella mattina in cui per tutte razioni le furono dati dei pugnelli di grano crudo. Tante ritrovate certezze - ed umiltà - fisiche, pagate a prezzo di pene enormi, vanno considerate un acquisto positivo. Ma come primeggiava nella pena, così primeggiò nelle conquiste l'anima. Impediti dal male esterno, che faceva una solida barriera intorno a noi e gravava uniformemente su tutta la città, di farci il solito male spicciolo, chi non era naturalmente efferato non poté che diventare buono, come forse non era mai stato in vita sua e come probabilmente non sarà più. Persone chiuse prima in un arido egoismo, e che immediatamente vi si sono richiuse, passata la spinta delle circostanze eccezionali, ebbero allora impeti di generosità e di solidarietà commoventi. Il costante dialogo con la morte ci aveva liberati dai vincoli, dai compromessi, dai mezzi termini che impiccoliscono la vita; ci aveva semplificati, riportati ai «principii», al pane e all'acqua dello spirito. In quella sospensione del tempo, indefinitamente remoti il passato e l'avvenire, non esisterono per noi che il presente e l'eterno, e il nostro presente confrontavamo all'eterno, per un atto divenuto ormai spontaneo come il respiro, e ci misuravamo alla sua luce definitiva. Tutti i problemi e le complicazioni erano rimandati al dopo, se un dopo vi fosse stato. La vita fu allora semplice: questo esser vivi di istante in istante, sentirsi, anima e corpo, vivi. Semplice e immensa come la rotazione della terra, o come il cerchio del nostro sangue. E non ci maraviglia di aver potuto, in mezzo a tante costrizioni selvagge, sentirci talora stranamente, intensamente liberi. La libertà che allora gustavamo era la libertà stessa dei figli di Dio. Con la normalità sono tornate quelle distensioni e quei vantaggi di cui eravamo rimasti così a lungo privi e che perciò possiamo pienamente apprezzare. Sono tornati anche il frazionamento, la molteplicità, la divisione in ogni campo. E vedendo quanto poco la nostra esperienza passata si iscrive nelle nostre azioni presenti, vien fatto di chiederci se anche le intuizioni che avemmo in quel periodo tremendo non siano rimaste lontano, alle nostre spalle, come i terrori che le accompagnarono. E forse è così. L'emergenza, nel bene come nel male, fu un'isola". (Andrea Luti, 'Firenze un anno fa', "Rassegna" n° 4, agosto 1945, pp. 77- 80)