
Andrea Rogg, direttore generale della Fiorentina (Riccardo Germogli)
Firenze, 11 gennaio 2015 - Laurea in Economia e subito il trasloco in Francia per la Nintendo, le esperienze in Luxottica (brand Briko e Arnette), la promozione a dirigente in Marcolin, la nomina a direttore vendite e marketing prima del balzo verso la delega di amministratore delegato della Puma in Italia. E poi _ oplà _ il tuffo parecchio carpiato dall’altra parte dello sport, quella dove si decidono le cose. Altro giro, altra corsa. E anche un salto nell’open space dell’esaltazione o della gogna, un posto dove gli elogi o gli insulti puoi leggerli sul giornale insieme al nome e cognome. Non uno qualsiasi, esattamente il tuo. «Mi hanno definito in molti modi, compreso manager inadatto, mi sono abituato dopo un po’ di tempo gestire l’impatto con il giudizio pubblico» dice Andrea Rogg, 47 anni, da novembre del 2014 direttore generale della Fiorentina.
Fronte operativissimo. Due parole e un trattino (Milinkovic-Savic) definiscono il momento più difficile, il lavoro in team e la sintonia operativa in tutte le altre operazioni, aggiungono esperienza e prospettive di crescita laddove ci sono le stanze con i bottoni. La lunga chiacchierata con «La Nazione» vale un po’ anche come presentazione pubblica, dodici mesi dopo il tuffo parecchio carpiato. E bisogna partire dalla sconfitta di sabato per riprendere il filo, con la premessa da parte di Rogg che la società non vuole dare importanza al malumore di pochissimi, dai quali peraltro il tifo organizzato ha preso le distanze. La proprietà è serena. E il no comment sull’episodio è netto, perché visto il numero esiguo non si può parlare di contestazione.
Dottor Rogg, è comunque cambiato qualcosa all’interno della Fiorentina dopo la sconfitta contro la Lazio? E ci sarà un cambio di ritmo nelle strategia di mercato? «No, abbiamo fatto un girone d’andata di cui tutti devono essere orgogliosi, la città ed i tifosi, la società, i giocatori, l’allenatore e lo staff tecnico. La sconfitta non cambierà il nostro modo di operare e le nostre ambizioni: investire per migliorare la rosa inserendo giocatori in grado di farlo, privilegiando giovani di grande prospettiva per poter continuare a competere con ogni avversario. Senza contare che resistiamo alle lusinghe e all’interesse dimostrato nei confronti di molti nostri giocatori non vendendoli. Il tutto nel rispetto della sostenibilità economico/finanziaria dettata dai nostri fatturati e dal fair play finanziario Uefa». Com’è il calcio visto da dentro? «Sono fortunato a poter vivere questa esperienza, essere nel cuore dello sport è per me motivo giornaliero di soddisfazione. Questo è un ambiente che ho sempre amato, anche da appassionato praticante. Ho giocato a calcio fino alla prima categoria, poi a sedici anni ho scelto il tennis e qualche soddisfazione me la sono tolta. Ora corro regolarmente per restare in forma, o almeno per provarci... Nelle fasi precedenti del mio lavoro ho avuto l’opportunità di avvicinare tanti calciatori e dirigenti, la Puma ha sponsorizzato molte squadre e anche la Nazionale. Ho fatto contratti con campioni di altissimo livello, fra questi ho conosciuto meglio Buffon, Verratti, Balotelli, Chiellini, Astori. In ogni caso adoro lo sport e ora ci sono dentro nel senso più completo». E’ difficile fare il dirigente di calcio? «In ogni azienda mi sono sempre confrontato con le pressioni. Ma qui sono completamente diverse, perché vieni giudicato solo in base ai risultati che ottiene la squadra. Non dico giudicato dalla proprietà, ma dalla gente, dall’opinione pubblica. Qui c’è adrenalina continua, il giorno della partita tutti noi dirigenti siamo tesi come i calciatori, quasi in paranoia, pensate che in ritiro cerchiamo di cogliere il senso delle loro espressioni per capire come andrà la partita... E’ proprio un tipo di parametro diverso, ci ho messo un po’ per abituarmi anche all’idea di vedere il mio nome sul giornale. Accostato poi ai giudizi, che a volte non sono stati proprio positivi». Qual è l’aspetto più negativo del mondo del calcio? «Parlo da dirigente arrivato da un anno e quindi posso avere una visione parziale, ma sono rimasto colpito dalla quantità di denaro che esce dal sistema. Proprio viene persa. Mi spiego: le società investono e si assumono il rischio di impresa, i giocatori sono attori pagati rispetto al valore che hanno in base alle richieste. Poi c’è una consistente fetta di denaro che esce dal circuito e va agli intermediari». Soluzioni? «Mi resta difficile pensare che, nell’era della tecnologia e della comunicazione istantanea, sia impossibile creare una piattaforma unificata in cui le società interessate a un giocatore possano prendere contatto direttamente con il club proprietario del cartellino. In fondo basterebbe una mail all’interno di un sistema gestito, che ne so, dall’Uefa. O comunque da un ente calcistico sovranazionale. Credo si risparmierebbero molti soldi, che invece potrebbero essere investiti nel sistema calcio». Lei si è occupato molto di mercato... «Ho dovuto imparare e sto cercando di migliorare con l’aiuto di tutto il team». Milinkovic-Savic resta un nome difficile da dimenticare. Sabato è stato impossibile. «Ho già chiesto scusa per come è andata. Avevamo tutti gli accordi necessari, compresi quello con il club proprietario e il giocatore stesso, poi lui ha cambiato idea... Da questa storia ho imparato una lezione: mai più porterò a Firenze un possibile rinforzo senza avere prima la sua firma». Passiamo al mercato e facciamo un po’ di nomi. «Su questi non posso sbilanciarmi. Comunque l’intenzione di tutti è quella di migliorare la squadra con acquisti funzionali». In un’intervista il presidente esecutivo Cognigni ha parlato di «acquisti di prima fascia». «I giocatori che arriveranno dovranno aggiungere valore a una squadra che ne ha già tanto. Per questo dovranno essere sicuramente di prima fascia. Il presidente si riferiva alla funzionalità del loro innesto, al contributo che dovranno dare per arricchire un contesto già elevato. Poi sul concetto di prima fascia bisogna intendersi: per esempio Kalinic non sembrava un nome da prima fascia e poi invece lo è diventato. Per cui: più che i nomi, dovranno essere di prima fascia i giocatori». Pare che con Gomez possano arrivare 9 milioni dal Besiktas. «Mah». Non sembra molto convinto. «Siamo tutti molto contenti per Mario, si merita le soddisfazioni che sta ottenendo. E’ un ottimo calciatore e una bravissima persona. La prossima stagione però andrà in scadenza di contratto, se lui vorrà restare in Turchia abbiamo fissato con il Besiktas un riscatto simbolico lontano _ ma proprio lontanissimo _ da 9 milioni. La Fiorentina ha stabilito semmai un’alta percentuale di guadagno nel caso in cui il Besiktas dovesse vendere il giocatore in un secondo momento. Il senso di questa operazione risiede per ora nel risparmio dell’ingaggio». Veniamo a Salah. «Siamo in attesa della decisione del Tas (Tribunale amministrativo sportivo, ndr), convinti di avere ragione, ci siamo affidati a professionisti esperti per tutelare i nostri interessi». Il Chelsea ha chiesto una proroga dei tempi, può essere un buon segnale? «Non ha senso fare queste interpretazioni. Sarà il Tas, a breve, a esprimersi». Suarez è arrivato all’interno dell’affare Savic. Quanto piaceva il giocatore a Sousa? «Anche in questo caso una premessa: stavamo e stiamo parlando di un campione. Dispiace solo che l’addio di Savic abbia provocato un po’ di tensione per un banale disguido, perché mentre la squadra si stava imbarcando per la tournée in Usa arrivò la telefonata dell’Atletico Madrid che chiedeva di non far partire il giocatore. Accettava tutte le nostre richieste economiche, ma pretendeva di averlo subito. Savic fu informato dal suo procuratore mentre era in pullman e avvertì subito Sousa, pochi secondi prima che l’allenatore fosse contattato da noi dirigenti... Con Paulo ci siamo chiariti, è stato solo un disguido». Sousa è un allenatore amatissimo dal pubblico. In passato la sovraesposizione dei dipendenti era stata mal digerita dalla proprietà. Ci sono pericoli in questo senso? «Non scherziamo. Paulo è straordinario sotto tutti i punti di vista, ma quello che è successo nelle scorse settimane è figlio di una scelta comune. Il suo comportamento è stato anche dettato da un incontro avuto con la proprietà prima della firma del contratto: la missione era quella di riavvicinare la squadra alla città dopo anni un po’ distanti. Certo che Sousa è stato un interprete eccezionale, non nel senso che interpreta un ruolo, ma proprio è suo. Non finge, è così. Poi, per quanto riguarda la sovraesposizione, dico che è vero esattamente il contrario: tutto qui è figlio del team. Anche nel caso di Kalinic, l’esempio più eclatante perché è stato Sousa a indicarlo in base alla sua idea di gioco, la richiesta è stata accolta subito e verificata dai nostri uomini mercato. Non faccio nomi, ma ci sono giocatori su cui magari l’impressione iniziale di Paulo era diversa e poi invece su consiglio del team sono rimasti, facendo benissimo. Insomma: il lavoro è davvero comune». Quello di Alonso è stato un rinnovo importante. «E credo sia figlio di quello che abbiamo detto finora:investire sui giovani talenti con grande prospettiva. Alonso ha rifiutato offerte, ci dicono, di Juve, Inter, perfino del Barcellona... Ha capito che restando qui può migliorarsi in una società che sta crescendo e può aiutarlo a migliorarsi per crescere come professionista». Torniamo al mercato... «Niente nomi. Posso dire che stiamo lavorando con le idee chiare e che abbiamo concordato con Sousa tutti gli obiettivi. C’è un podio di giocatori in ogni reparto, più quattro opzioni di riserva. La nostra speranza è quella di arrivarci il prima possibile, ma siamo disposti ad aspettare un tempo ragionevole per assicurarci i rinforzi migliori».