
Giorgio Moroder
Firenze, 9 maggio 2019 - «Ma figurati se i dj ‘suonano’. Caso mai mettono dischi, mixano, ma suonare...di certo non appartiene alla categoria. Chi dice che suona dalla consolle, sbaglia». E se lo sostiene lui, che ha regalato sogni ad almeno due generazioni, è così. Giorgio Moroder è un mito, detto proprio per volerlo dire, mito. Non sparato a casaccio. Incredibile ma vero sarà in concerto al Mandela Forum sabato 18 maggio alle 21 nell’ambito del suo primo tour live europeo dal titolo «The celebration of the 80’s».
Moroder, è il primo tour per lei, padre della disco music: «Confesso che è qualcosa che ho sempre voluto fare. E’ qualcosa che si avvera, ed è incredibile quanto i fan hanno continuato a contattarmi, chiedendo se lo avrei mai fatto un vero tour. In passato era impensabile che i produttori abbandonassero i loro studi. Perché questo territorio era riservato ai cantanti».
E invece, oggi? «Di certo c’è più apertura, oggi i produttori, di Dj e di musica sono diventati vere superstar della musica dance pop, quindi il momento è quello giusto e io non vedo l’ora di farlo e di essere su quel palcoscenico».
Come si vive da leggenda della musica elettronica e da autore della colonna sonora di generazioni? (ride)
«Non è colpa mia, sono innocente e vivo tranquillamente. Spero che celebrare gli indimenticabili anni ’70 e ’80 con le migliori hit della mia prolifica carriera sia una bella esperienza per tutti».
Come non ricordare I Feel Love, On the Radio e Love to Love You Baby, Hot Stuff? «Già, come? Devo dire che mi diverte risentire la mia musica che passa alla radio e che nello spettacolo ripropongo. Ovviamente in radio tutto non dura più di un minuto e mezzo e i pezzi vengono remixati, ma in concerto, giuro, i brani saranno quelli. Leggermente rivisitati ma chiaramente lasciati per quello che sono, riconoscibili».
Moroder ha collaborato con personaggi pazzeschi come Cher, Blondie, David Bowie , Freddie Mercury. Che ricordi ha? «Di rapporti belli e costruttivi di lavoro con musicisti e cantanti eccellenti. Ma confesso che la mia formazione è pochissima cosa. Suonavo la chitarra, il basso e le tastiere. Andavo in studio a comporre, provare ma soprattutto a buttar via i pezzi».
Quando capiva che un brano andava bene? «Il giorno dopo che lo avevo scritto. Mi chiedevo: ma che cosa ho fatto ieri, ero ubriaco? Quando si compone si fanno bene una, al massimo due partiture. Tutto il resto è da buttare, da rifare, da riguardare».
Lei balla la sua musica che ancora spopola nelle discoteche del mondo? «Io no, ma a mia moglie piace. Ogni tanto però vado in discoteca per vedere cosa succede. Mi incuriosisce questa cosa di serate dedicate alla musica ’70 -’ 80. A me è sempre piaciuto il ritmo: nel ’71 Son of My Father è stata numero 1 in Inghilterra e 40 in America. Poi, sì, c’è stata la svolta con Love To Love You Baby . E’ così che ho capito che la musca disco andava forte».
Una fra le tante soddisfazioni maestro?
«C’è un club a Los Angeles che si chiama Giorgio dove il dj mette pezzi solo disco, i miei: aprono venerdì e sabato ed è sempre pieno di gente con la voglia di ballare». Mission impossible: andare.