Un mese fa ha rischiato l’esonero, oggi è l’allenatore più applaudito del campionato. Più delle canzoni di Battisti, il calcio è fatto di discese ardite e di risalite. Ma lui, Raffaele Palladino da Mugnano di Napoli, questa risalita prepotente nella considerazione generale se l’è guadagnata col merito. Perché dietro a questa Fiorentina da vertice, che per solidità e approccio marmoreo alla partita ricorda il Biancone di piazza della Signoria, c’è evidente la sua mano di allenatore atipico con dentro una visione di calcio pragmatico e duttile. Sì, Palladino è a suo modo un mister originale, un iconoclasta che sta distruggendo le immagini sacre del recente passato calcistico a Firenze, collocandosi in una terra di mezzo ancora tutta da scoprire. Cresciuto alla scuola del gasperinismo, ovvero di quel calcio che teorizza la futilità del possesso palla per sposare la concretezza della marcatura a uomo e delle ripartenze in perpendicolare, Palladino infatti è andato oltre, mescolando diverse filosofie di gioco senza restare mai prigioniero di nessuna.
La sua Fiorentina, in queste prime 12 gare di campionato, è stata infatti alternativamente molte cose. Una formazione camaleontica, un po’ Fregoli e un po’ Arturo Brachetti, che spesso ha sorpreso l’avversario, colpendolo nelle sue fragilità. Così, se con la Roma e con il Milan aveva lasciato il possesso palla all’avversario per poi colpirlo in verticale (la Roma ha terminato la gara col 61%, il Milan col 60%) col Verona a un certo punto della partita la Fiorentina si è ritrovata con un 70% di possesso palla con il quale ha soffocato i gialloblu. Non solo. Anche durante la gara la Fiorentina si trova senza patemi a vestire panni diversi.
Per dire: nel finale col Verona in campo c’erano contemporaneamente 4 terzini mentre per recuperare la gara con i Nuovi Santi gallesi la Fiorentina ha schierato insieme 5 attaccanti. Una squadra multifaccia, da bosco e da riviera, con un allenatore bravo a leggere dentro le pieghe della partita e a trovare soluzioni; bravo a intravedere il talento in itinere (vedasi alla voce Comuzzo) e a scardinare gerarchie consolidate di spogliatoio (in questo caso vedere alla voce Biraghi e Quarta). Con due sole grandi costanti: un’attenzione quasi maniacale alla fase difensiva e l’idea che il lancio verticale valga molto di più che non il palleggio prolungato in orizzontale. Ora: qualcuno per queste doti avvicina Palladino a Trapattoni, altri vedono in lui tracce del pragmatismo di Ranieri, altri ancora del primo Prandelli a Firenze, quello che costruiva le vittorie sull’asse Frey-Toni. Suggestioni, anche belle. Ma forse è anche forviante far paragoni, che il calcio è in continua mutazione e il passato è sempre una terra straniera. Godiamoci dunque senza retropensieri questo presente luminoso di un allenatore iconoclasta, con l’idea magari di ritrovarci in terre lontanissime e affascinanti che alla fine potrebbero pure non esserci straniere.
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