La Spezia, 10 aprile 2022 - Il piccolo Volodymyr ha 9 anni; di tutti i bambini passati dall’info point per rifugiati ucraini, allestito presso la questura della Spezia, è forse quello il cui ricordo è rimasto più impresso al personale dello stand. "Ma qui non li fanno i "botti"?" chiede in ucraino ai nonni, dopo aver scrutato con i suoi occhi azzurri il prato del parco della Maggiolina. "No, qui i botti non ci sono" gli assicurano i nonni e l’interprete dell’ufficio informazioni. Queste poche parole bastano perché Volodymyr si slanci immediatamente oltre il cancello del parco per correre a perdifiato sull’erba con il sorriso stampato sul viso.
«Nonna, zia, come mai qui non si sentono le sirene?...E i botti"?" E’ la domanda che nella sua lingua, in ucraino, ogni giorno anche il piccolo Ivan di 5 anni rivolge, da quando si trova al sicuro a casa di zia Liliya. Ha ricominciato a giocare il piccolo Ivan, utilizzando piccoli, svariati oggetti che capitano "sotto tiro" delle sue manine; come solo la fantasia dei bambini permette di fare. Realizzando però, ciò che con la fantasia di un bambino dovrebbe avere ben poco a che fare, anzi nulla. Ivan costruisce carri armati con le mollette del bucato. Perché lì, sui tank, ci sono il suo nonno e il suo papà, rimasti a combattere nella regione di Sumy. E’arrivato qui con la mamma grazie a Svetlana (un’altra mamma) e al suo coraggio, quello di rimanere incollata al volante dell’auto, il piede sull’acceleratore, continuando a guidare per uscire dalla città; approfittando di un corridoio verde e riuscendo a evitare le pallottole dirette alle gomme. A raccontare l’inferno di Trostyanez vissuto dai suoi parenti e dai loro figli è Liliya: "Mia cugina mi ha detto di aver imparato a volare: la sera rincasando dal lavoro, sotto il bagliore dei missili che si incrociavano sulla sua testa, correva talmente forte da non sentire più neppure le gambe ma solo paura e boati. Poi – continua Liliya con le lacrime agli occhi - anche le abitazioni hanno smesso di essere rifugio sicuro: i soldati hanno cominciato a fare irruzione, casa per casa, anche nella sua via, violentando ed uccidendo i civili. Anche i bambini". Svetlana e i suoi figli ce l’hanno fatta ma il pensiero è la con chi è rimasto a combattere o a chi non è riuscito a scappare.
«Non ce la faccio a spiegarmi tutto questo; a trovare ancora una risposta per mio nipote Ivan che mi chiede quando potrà tornare nel suo asilo". Andrii e sua moglie vengono da Kharkiv, seconda città dell’Ucraina a 39 chilometri dal confine russo, martoriato dai continui, incessanti bombardamenti: 30 anni lui e 26 lei. Hanno resistito alle bombe, nascosti nella loro casa per dieci giorni, senza acqua né cibo. Poi la disperazione è stata più forte della paura e li ha spinti a tentare la fuga, arrivando prima in Polonia poi nella nostra città dove un ragazzo spezzino ha offerto loro ospitalità per un mese nel suo bed & breakfast a bassissimo costo. "Non ho tanta voglia di raccontare – dice Andrii –. Ho lasciato in Ucraina mia sorella, militare rimasta a combattere". Si gira rapido di tre quarti, gli occhi umidi.