
Mara De Martino
La Spezia, 30 aprile 2020 – Chi è rimasto 'segnato' dall'emergenza va sostenuto. Lo sa bene la Croce rossa italiana che 'corre' in aiuto dei propri volontari, dipendenti e presidenti attraverso il servizio di assistenza psicologica – attivo su tutta la provincia spezzina – che conta sette specialisti in tutto, tra psicologi e psicoterapeuti. Di questo gruppo due sono attivi nel comitato della Spezia, due in quello di Follo e tre a Levanto. Insieme a loro anche cinque operatori socio-sanitari. A spiegare il difficile lavoro portato dal Covid-19 è Mara De Martino, psicologa della Croce rossa della Spezia e coordinatrice del servizio a livello provinciale.
De Martino, ci può spiegare in cosa consiste il servizio psicosociale della Croce rossa?
«Supportiamo in primis volontari, dipendenti e presidenti di tutti comitati. In questo momento nessuno è esente dall'emergenza Coronavirus: problematiche, responsabilità e impegni sono aumentati».
Quali sono i traumi più comuni?
«Per i volontari il grande 'scoglio' è la prima vestizione con il kit 'Covid', una parola che è diventata sinonimo di morte. Pian piano, chi fa parecchi turni, inizia poi a percepire l'atto come una prassi: così sanno di essere più sicuri. Ciononostante lo spirito volontaristico è emerso al meglio, la voglia di dare una mano ha battuto la paura».
Altri momenti difficili da elaborare?
«Non riuscire a riportare a casa le persone soccorse, accompagnate con la speranza di rivederle e trasportarle a casa dopo una ventina di giorni. Per tanti è successo, per tanti altri no. Fortunatamente il contatto con la morte non diventa abitudine. È un bene, ci fa rimanere umani e sensibili».
E la ripresa dal trauma? Come avviene?
«Usiamo due tecniche, il 'defusing' e il 'debrifing'. La prima consiste nel chiamare chi ha subito l'evento stressante per fargli raccontare il vissuto entro le 12 ore, in modo tale che ciò che ha avuto un forte impatto emotivo non diventi trauma. La seconda, il 'debrifing', ci porta invece a ricontattare il volontario dopo una settimana per capire cosa è rimasto di quel momento, farlo elaborare, metabolizzare e persino darci un nome».
Come stabilite i primi contatti con i soccorritori?
«Con una telefonata, chiedendogli come stanno. In questo modo speriamo che possano 'aprirsi' e rendersi conto di essere sostenuti e mai soli».
Le telefonate vengono fatte a tutti?
«Sì. Dopo aver fatto il giro completo, a distanza di 15 giorni, riparliamo con i volontari che fanno più turni, verificando il loro stato di salute. Non mancano poi le segnalazioni da parte delle stesse sedi: dopo tanti giorni la stanchezza si fa sentire».
Il tutto sempre in modalità smart working?
«Alcuni colleghi, occupandosi di altre attività oltre al supporto psicologico, passando anche fisicamente dalle sedi. Quando succede non si dimenticano di chiedere all'equipaggio di turno come sta andando. Per il resto sfruttiamo le modalità più disparate, dalle telefonate alle videochiamate. Questo ci permette di raggiungere velocemente, e in maniera sicura, una fetta più grande di persone. Poi esistono anche realtà più piccole, come quelle di Levanto, Ameglia e Follo, in cui i numeri ci garantiscono maggior efficacia, permettendoci di aiutare anche la popolazione».
Com'è lavorare durante un'emergenza?
«Non è facile, né scontato. Ci vuole una preparazione specifica, anche se si lavora in smart working. È tutto diverso rispetto al lavoro che psicologo e psicoterapeuta svolgono nella vita di tutti i giorni. Non si hanno 7-8 sedute di tempo da dedicare a ciascuno. Il tempo deve essere distribuito per ottenere risultati prima possibile».