
Al comando del battaglione Zignago della Colonna Giustizia e Libertà. Il 12 aprile costrinsero alla resa l’ultimo presidio fascista di Borghetto.
Ai primi di aprile del 1945 la Liberazione era ormai vicina. Le formazioni partigiane scesero dai monti, in appoggio all’offensiva alleata. Fin dal 5 aprile il comando della IV zona operativa aveva assegnato a ogni brigata un settore della Val di Vara e della Val di Magra nel quale ostacolare con ogni mezzo i tedeschi in ritirata. La statale Aurelia, la Cisa e la ferrovia Pontremolese furono teatro di continui sabotaggi e attacchi a pattuglie tedesche.
Il battaglione Zignago della Colonna Giustizia e Libertà era sceso da Montelama, nello Zerasco, a Debbio, in Val di Vara. Il comandante era Ermanno Gindoli, nome di battaglia “Ermanno”. Nato a San Benedetto di Riccò del Golfo nel 1919, studiò nel Collegio di padre Semeria a Monterosso, dove si diplomò maestro. Sottotenente nell’Esercito, l’8 settembre 1943 si trovava a Rieti, dove fu fatto prigioniero dai tedeschi e collocato su un treno per essere portato in Germania. Riuscì fortunosamente a fuggire e tornò alla Spezia. Qui allacciò i contatti con elementi di Giustizia e Libertà, in modo particolare con Alberto Paganini, appartenente a una famiglia spezzina che aveva una casa per l’estate a San Benedetto, che sarà poi colpita in modo terribile – quattro deportati in Germania, di cui due non sopravvissuti. Nella zona operava anche un altro partigiano giellista, Vero Del Carpio, che diventerà comandante della Colonna. Ermanno salì ai monti nel marzo 1944, a Valditermine di Zeri. Amelio Guerrieri raccontò: "Ermanno arrivò alla grande, portandosi dietro altri quaranta giovani, armi e sette muli". Gindoli fu distaccato a Montelama. Nel rastrellamento dell’agosto 1944 scese coraggiosamente nei villaggi che stavano bruciando, il suo gruppo perse un uomo. Successivamente la Colonna si articolò in sei Compagnie; Ermanno assunse il comando della VI, sempre a Montelama. I documenti ce lo descrivono “attivo, zelante e coraggioso”. Scriveva poco, non rispondeva ai solleciti e per questo veniva rimproverato. Poi imparò e aggiunse alle sue doti militari una capacità “burocratica”, intesa nel senso migliore. Un’altra sua qualità era l’umanità. Così lo ha ricordato il cognato Alberto, partigiano: "Noi ci lamentavamo per il freddo e l’immobilità dell’attesa… Tui tirava fuori il suo clarinetto e per farci stare allegri si metteva a suonare e a fare il buffone, finché non ci vedeva un po’ rianimati!".
L’11 aprile il battaglione Zignago rioccupò Brugnato, che era stata persa nel rastrellamento del gennaio 1945 e poi era stata evacuata dai tedeschi, e il 12 aprile attaccò, aiutato anche da un piccolo nucleo del battaglione garibaldino Vanni, la caserma di Borghetto – l’ultimo presidio fascista nella zona – costringendola alla resa. Dopo un duro scontro, i militi si arresero e 21 di loro furono presi prigionieri. Subito dopo Gindoli si portò verso la curva della Rocchetta, per far brillare le mine, già posizionate dai tedeschi, e interrompere così la strada. L’esplosione provocò una frana e interruppe la statale, ma i partigiani furono individuati da un’autocolonna tedesca in transito. Ermanno e il caposquadra dei sabotatori, Oronzo Chimenti “Miro”, tarantino del 1921, furono subito uccisi. Il comandante di compagnia Alfredo Oldoini, “Alfredo”, spezzino del 1923, studente di Economia e commercio a Genova, rimase con una gamba spezzata: si portò sulla sponda opposta, ma, consapevole dell’impossibilità di difendersi, si uccise. I tedeschi uccisero anche il partigiano di Beverino Colombo Zavarone, classe 1913, che era sceso a cercare i suoi compagni.
Il dolore fu incontenibile. I militi della Gnr, presi prigionieri a Borghetto, esclusi i minorenni, in un contesto drammatico, contrassegnato anche dall’odio della popolazione verso i fascisti, furono processati, condannati a morte e fucilati. Una vicenda tragica che ci spiega che anche uomini che si battevano per la libertà e la pace furono costretti dalla guerra ad essere, in qualche occasione, “brutali”. L’umana pietà per tutti i morti non deve però far dimenticare la verità: una parte fu costretta alla guerriglia perché l’altra parte aveva un esercito con cui voleva sottomettere e distruggere il mondo con la violenza e la dittatura. In ogni guerra la responsabilità storica ricade su chi ha provocato il dolore. Così Manzoni scrisse della voglia di Renzo di farsi giustizia contro don Rodrigo: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi”. Quando i giellisti si misero in marcia per andare a liberare la città, il loro canto riferiva al nome dei caduti l’attesa della libertà tanto attesa: ’È la compagnia d’Alfredo / è d’Ermanno il Battaglion / è Miro che comanda / si va giù si va giù si va giù’. I partigiani, che pure avevano vinto anche con le armi, divennero poi costituenti. Memori della guerra come male non riparabile, decisero di ripudiarla.
Co presidente del Comitato Unitario della Resistenza