Capacità, passione e tanto impegno. Sono questi alcuni degli ingredienti che hanno portato la dottoressa Lucia Torracca a diventare un’eccellenza della cardiochirurgia, con più di 30 anni di esperienza ’tra le mani’. Spezzina di nascita, ha lasciato ben presto la sua città natale per intraprendere una fulgida carriera professionale che l’ha condotta, nel 2008, a diventare primario di cardiochirurgia ad Ancona e, oggi, responsabile dell’unità operativa di cardiochirurgia dell’istituto Humanitas di Rozzano, comune della città metropolitana di Milano.
Quando è nata l’idea di intraprendere questa professione?
"Sono figlia di un medico e probabilmente da mio padre ho preso la passione per questo lavoro. Ma soprattutto ha influito il modo in cui gli ho visto svolgere questa professione. L’idea della cardiochirurgia invece è nata studiando all’università, da un connubio tra la passione per la chirurgia e un certo atteggiamento mentale che mi caratterizza: sono piuttosto decisionista, la classica persona che cerca di trovare soluzioni al problema. Lo studio della fisiopatologia del cuore d’altronde mi ha affascinato particolarmente. Ho messo insieme le due cose e da lì è nata l’idea di fare il cardiochirurgo".
In che senso l’ha ispirata suo padre per il modo in cui esercitava la sua professione?
"Mio padre era pediatra. Ha sempre fatto il suo lavoro con grande passione e molta umanità. A questo associava anche una grande competenza. L’ho visto studiare sempre, fino ad età avanzata. Non ha mai smesso di aggiornarsi, di confrontarsi. Parallelamente, era anche una persona di grande umanità, con un atteggiamento estremamente empatico nei confronti dei pazienti. Mi ha trasmesso non soltanto le curiosità scientifiche ma anche la propria indole".
Ho letto che lei è stata il primo primario donna di cardiochirurgia in Italia...
"Così dicono (ndr., sorride). Nel senso che di questa cosa non mi sono mai occupata molto. Sono stata abbastanza fortunata perché sono diventata primario in età giovanile: era il 2008 e avevo 43 anni".
Abbiamo dovuto attendere il 2008 per avere un primario donna di cardiochirurgia. La figura femminile nel suo campo trova ancora poco spazio?
"Quando ho iniziato a fare questo lavoro eravamo un numero estremamente esiguo, erano sufficienti le dita di una mano per contarci. Pian piano, molto lentamente, le cose sono cambiate, sostanzialmente perché da alcuni anni il numero delle donne che sono iscritte alla facoltà di medicina è continuamente in crescita. E quindi, obtorto collo, è stato facilitato anche l’accesso delle donne alla scuola di specialità in cardiochirurgia. Non che prima fosse chiuso, ma era abbastanza scontato che le donne si dedicassero ad altri lavori e non erano neanche particolarmente ben accette in questo mondo, perlomeno non da tutti. Oggi le colleghe più giovani che fanno questo mestiere sono molte. Rimaniamo su un numero minoritario rispetto agli uomini, ma niente a che vedere con il periodo in cui ho cominciato. Il problema che permane, e che è diffuso a tutto il mondo del lavoro, è che la crescita in termini di carriera è sempre molto ostacolata e difficile, anche se non in tutti gli ambienti".
Quanta fatica ha fatto per riuscire ad arrivare dove è adesso?
"La fatica più grande è stata quella legata all’impegno che questo lavoro ti richiede se lo vuoi fare in un certo modo. Un impegno che non si limita alle ore che trascorri in ospedale. Se vuoi rimanere aggiornato devi dedicare tantissimo tempo allo studio. E questo, nella nostra realtà, lo puoi fare prevalentemente nel tempo libero. La fatica quindi è stata tanta. Ho fatto una scelta personale, sono stata disponibile a spostarmi e l’ho fatto alla ricerca di un ambiente in cui fossi accettata. Non ritenevo che fosse di alcuna utilità stare in un ambiente dove mi rendevo conto che non avrei avuto probabilità di progressione professionale. Ho preferito cercare e ho trovato un ambiente dove le possibilità mi sono state date, direi in maniera equivalente a quelle dei miei colleghi. E questo fa parte della fatica, perché per crescere professionalmente non sono stata sempre nello stesso posto e non tutti sono disponibili a fare tutto percorso".
Cosa direbbe alle giovani che volessero intraprende la sua professione?
"Che questo lavoro richiede grande impegno e sacrificio. Non si può pensare all’orario, altrimenti ci vogliono tempi biblici per imparare. Le occasioni vanno colte anche quando sono fuori orario. È un lavoro che si impara così. Può dare molte soddisfazioni ma deve piacere tanto, perché il sacrificio è tanto".
Torna mai alla Spezia?
"Sì, durante l’estate, ho ancora amici e vengo abbastanza spesso".
Maria Cristina Sabatini