Lui si definisce uno spezzino anomalo: un giramondo per vocazione, attratto dalla forza centrifuga e refrattario per natura alla gravità che trattiene la gente del Golfo caparbiamente attaccata a questo lembo di terra. Cesare Maccioni, in arte Maraboshi, dal 10 maggio al 30 giugno sarà protagonista di una personale allo spazio Colleoni di Bergamo – il catalogo, curato da Artigrafiche Mariani & Monti ha un’ampia introduzione firmata da Luca Basile –. ’Vastità circoscritte’: questo è il titolo dell’esposizione che propone ai visitatori una ricca selezione degli ultimi due anni di lavoro dell’artista, con alcune incursioni nel linguaggio adottato tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000.
Maraboshi, il titolo della sua personale bergamasca, ’Vastità circoscritte’, richiama uno dei motivi ricorrenti della sua ricerca, il nesso tra forma e segno.
"La riflessione sul linguaggio, anzi sui linguaggi, è di grande interesse. L’arte è pervasa da quello che Federico Garcia Lorca chiama il ’duende’, una parola che non ha analogie in lingue diverse da quella spagnola e che sottindende la presenza di un’energia oscura, l’inquietudine, motore dell’esperienza del vivere e delle emozioni".
L’arte parla la lingua del ’duende’?
"Ogni quadro ha una sua identità mistica. Ed è in costante dialogo con l’artista".
E’ il ’duende’ del quadro a suggerire quando l’opera può considerasi conclusa?
"In un certo senso sì. L’artista lo sa, lo sente, quando un quadro non può ancora dirsi completo, quando manca ancora qualcosa. Ho un ricordo nitido in proposito. E risale a un periodo in cui lavoravo con il poliuretano espanso. Avevo sotto mano un’opera che avevo battezzato ’Quadro intelligente’. Ma qualcosa non andava, non riuscivo a completare il mio lavoro: sono andato avanti così, impossibilitato a mettere mano alla creazione, per un anno buono. Poi ho capito che era arrivato il momento di intervenire. Sono letteralmente entrato dentro alla tela e ne ho fatto un monocromo: l’ho svuotata dell’anima che l’aveva occupata e l’ho plasmata a partire dalla suggestione di alcune frecce appuntite. Così è nato ’Cuore nero’ e il giorno dopo la tela era già venduta. Adoro lasciarmi trasportare da questo sentire".
La forma è già nella materia o le deve essere aggiunta? Voglio dire, lei crede alla maieutica dell’arte?
"Sentire e materia vanno di pari passo. Per questo ultimamente lavoro molto servendomi delle mani. Il pennello è troppo lezioso".
Ha iniziato a dipingere nel 1988, dopo la morte di suo padre. Perché?
"Avevo bisogno di buttare fuori tutto il non detto. Erano lavori molto basici, ma rispondevano allo scopo: dare corpo alla forma che mi possedeva e che bussava da dentro. Creavo senza nessun ritegno. Ricordo che una volta Sergio Tedoldi, un artista che stimo enormemente e dal talento sconfinato, guardando alcune delle mie creazioni giovanili se n’è uscito fuori con questo commento: ’Mamma mia, quanto sei libero, ti invidio’".
Da dove viene il nome Maraboshi?
"Dalla mia vita precedente. Anzi, da una delle mie precedenti vite. Alla fine degli anni ’70 lavoravo con Fiorello nei villaggi Valtur. Una sera durante uno spettacolo di animazione ho inscenato la parodia di un famoso manga dell’epoca. Sono salito sul palco e ho cominciato a dire: ’Sono Maraboshi e vengo da un’altra galassia per difendere la libertà’. Eravamo a Ostuni, finito lo spettacolo Fiorello mi ha guardato e mi ha detto: ’D’ora in poi sei Maraboshi’. E così è stato. Per questo, quando ho cominciato a dipingere, ho usato l’abbreviaziobne – Mara – per siglare le mie opere".
Roberta Della Maggesa