La Spezia, 26 gennaio 2025 – Un iter diagnostico e terapeutico “lacunoso e dilatato nei tempi rispetto a quanto previsto”, un approccio alla paziente “negligente ed imprudente, non improntato alle indicazioni delle linee guida e alle buone pratiche cardiologiche”. Con queste parole, il tribunale della Spezia ha condannato la Asl 5 a risarcire con oltre un milione di euro i familiari di una donna spezzina morta nella primavera del 2014.
La vicenda giudiziaria per quella che anche il tribunale civile della Spezia non ha esitato a definire malpractice sanitaria, è approdata nei giorni scorsi alla sentenza di primo grado, con il giudice Adriana Gherardi che, all’esito della consulenza tecnica commissionata a un perito, ha concesso un risarcimento monstre ai familiari della donna.
La vicenda prende le mosse da un primo ricovero avvenuto nel settembre 2013, allorquando la donna – affetta da una miocardite, per la quale era già stata sottoposta a cure e in particolare ad impianto di protesi valvolare – in stato confusionale e con febbre alta, fu portata al pronto soccorso dell’ospedale San Bartolomeo di Sarzana per accertamenti.
Qui, secondo quanto ricostruito dal perito nella consulenza tecnica, sarebbero iniziati i primi problemi, con i medici che non avrebbero riscontrato da subito la patologia. “La diagnosi di endocardite infettiva viene fatta dopo 8 giorni dal ricovero, denotando elementi di negligenza e imperizia nell’operato dei sanitari. Questo ritardo diagnostico e i relativi provvedimenti terapeutici ritardati risulteranno di cruciale importanza nel determinare le successive manifestazioni cliniche che si concluderanno poi con la morte della paziente, un anno dopo” si legge nella relazione.
Omissioni, quelle del personale ospedaliero, che si sarebbero verificate anche in una seconda occasione, nel febbraio 2014, con la donna ricoverata per due giorni, dimessa e vittima di un arresto cardiaco due giorni dopo la dimissione. “La dimissione dopo solo due giorni appare quantomeno frettolosa in quanto la buona pratica clinica avrebbe dovuto consigliare un più attento monitoraggio delle condizioni cliniche e dei parametri ematologici e strumentali. Vi erano inoltre le condizioni cliniche e strumentali che giustificavano l’impianto di un defibrillatore intracavitario: se ciò fosse successo si sarebbe potuto evitare l’arresto cardiaco cui è andata incontro la paziente due giorni dopo la dimissione” scrive il perito. La donna morì nel maggio del 2014, con i parenti che sin da subito avevano ravvisato carenze nell’assistenza sanitaria prestata alla propria cara. Da qui l’offensiva giudiziaria, con il compagno, la figlia, la madre e la sorella che hanno bussato alle porte del tribunale civile della Spezia.
Il giudice Adriana Gherardi, a seguito della consulenza tecnica d’ufficio che ha certificato come fosse “di tutta evidenza una connessione causale tra le omissioni diagnostico terapeutiche rilevate e il decesso della signora”, ha condannato la Asl 5 a risarcire tutti i famigliari.
Il Tribunale ha stabilito per il compagno 484.825 euro di risarcimento quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia della coppia, e e altri 340.257 di risarcimento diretto; per la madre è stato stabilito un risarcimento di 242.482 euro, mentre per la sorella è stata individuata la somma di 95.088. Un risarcimento complessivo di 1,16 milioni di euro, cui vanno aggiunte – sempre a carico di Asl5 – circa 9mila euro dell’accertamento tecnico preventivo e 50mila euro di spese legali.