
Nino Ricciardi
Proviamo una pena particolare per i partigiani che morirono ad aprile, pochi giorni prima della Liberazione. Avevano sofferto tanto, era appena cominciata la primavera – in tutti i sensi – ma non ce la fecero. Tra gli episodi più dolorosi quello della Val Graveglia. La Brigata garibaldina Vanni doveva chiudere alle truppe tedesche in fuga il passaggio verso Genova. L’8 aprile 1945 una squadra della brigata fu incaricata dal comandante Eugenio Lenzi “Primula Rossa” di far saltare il ponte del Graveglia a San Benedetto.
Leggiamo la testimonianza di Ottavio Chiappini “Lepre”, il capo squadra: "Il comandante mi ordinò di partire con una squadra per compiere l’azione; erano con me “Walter” (Marcello Toracca) e “Vampa” (Nino Ricciardi). Walter, Vampa ed io cercavamo il punto giusto da minare quando un rumore di scatti di bicicletta ci richiamò l’attenzione verso la strada: avevamo di fronte già vicinissima una pattuglia di tedeschi diretti verso Spezia; ci gettammo su di loro per disarmarli cercando di sfruttare la loro sorpresa: erano in 4, noi riuscivamo ovviamente ad impegnarne soltanto 3; il quarto cominciò a sparare con la sua Machin, rispondendo al fuoco che li raggiunse tutti uccidendoli; eravamo comunque tutti feriti: Walter in più parti del corpo; capii che la mia ferita era leggera, che Vampa doveva essere invece molto grave: morì infatti prima che riuscissimo a rientrare in zona. Walter morì due giorni dopo".
Marcello Toracca, migliarinese, aveva 20 anni. A 16 anni era entrato volontario in Marina. Dopo l’8 settembre rientrò a Spezia, salì ai monti nel giugno 1944. Nino Ricciardi, nato a Vezzano ma residente a Migliarina, aveva 24 anni. Chiamato alle armi nel 1941, ottenne una medaglia di bronzo per l’audacia dimostrata. Dopo l’8 settembre anch’egli rifiutò ogni collaborazionismo con tedeschi e fascisti, ed entrò nella Resistenza nel dicembre 1944. Entrambi inizialmente partecipi alla guerra fascista, capirono che il loro patriottismo doveva trasformarsi in lotta contro lo straniero invasore. Come era stato per Tanca. Ma in loro c’era anche la volontà di cambiare l’Italia e di combattere il fascismo.
Come rappresaglia per l’uccisione dei tedeschi l’11 aprile furono fucilati 5 partigiani detenuti: Aldo Benvenuto, 26 anni, Roberto De Martino, 27, Roberto Fusco, 29, Dante Gnetti, 22, Paolo Perazzo, 49 anni, processati e condannate a morte dal Tribunale Straordinario di guerra fascista. I morti erano tedeschi, la rappresaglia fatta dai fascisti. Ci resta la lettera di una delle vittime, Aldo Benvenuto, scritta poco prima della morte: "Carissimi Genitori e fratelli, purtroppo la sorte questa volta mi è stata contraria, ci vuole pazienza. In questo momento ho fatto la S. Comunione. Perdonatemi di tutti i dispiaceri che vi ho dato, come io perdono di cuore a tutti quelli che mi hanno fatto del male. Più che vi raccomando a voi di farvi coraggio e di far conto che io sia sempre in mezzo a voi, ché io muoio tranquillo, sereno e innocente. Quest’ultima mia tenetela come se fossi io presente, fatevi coraggio che io me ne faccio abbastanza. Ricordatemi sempre nelle vostre preghiere. Saluti e bacioni a tutti voi e parenti. Mi raccomando di nuovo di farvi coraggio. Andate a pigliare il cappotto, la cintura, il borsellino e i miei documenti alle carceri. Vi prego di consegnare a Maria il mio anello e di tenerlo caro come mio ricordo. Ora vi scrivo un biglietto per lei e ditele che lo tenga strettamente. Di nuovo coraggio e bacioni cari. Vostro aff.mo Aldo”.
Le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” sono lettere di ragazzi come Aldo, giovanissimi che parlavano all’ombra del plotone di esecuzione, quando cioè si parla con assoluta sincerità. Leggendole abbiamo netta l’idea di quella che era l’etica della Resistenza. Non c’è odio in queste lettere. Non c’è la ricerca fascista della “bella morte”, l’agonismo verso il nemico. C’è il perdono, la vita, la libertà.
Giorgio Pagano co-presidente Comitato unitario Resistenza