
Viani, pelle a pelle con le tele: "L’ultimo modello di cellulare ha stravinto sulla creatività. Oggi conta ciò che arreda"
Via la camicia. Perché il contatto della pelle con le opere è necessario. Il sudore imperla il petto e incide come una nebbia in cui, però, ci si vede benissimo per esprimere un oceano di pulsioni artistiche. Solo così, il suo pennello si appoggerà sulla tela con la giusta intensità, soltanto in quel modo la mente e il cuore plasmeranno la giusta tonalità di colore. La domenica, Luciano Viani dipinge. E lo fa così, solitario, dopo una settimana passata fra esposizioni e corsi, tra la gente. Anellino all’orecchio sinistro, un cappello a cui sistema a tratti la tesa, braccialetti su entrambi i polsi, l’artista che vive tra Vezzano Ligure e Santo Stefano Magra, ambirebbe solamente ad essere un miglior affabulatore. Null’altro. Il resto, quello che conta, è tutto attorno, nel suo studio-scuola ai Prati. La natura in particolare, per cui nutre un rispetto maniacale e che lui – pur abilissimo ritrattista e paesaggista – esprime, da qualche decade, con papaveri, glicini, calle, elefanti e alberi della vita, non solo nel suo prediletto rosso su fondo nero. ‘Macchie’ di bellezza incorniciate, nate da un tecnica sopraffina e da uno stupore mantenuto vivo.
Che rapporto c’è tra l’arte, la realtà e la società?
"L’arte è riservata a pochi, poiché chi ama questo tipo di espressione, è persona dotata di spiccata sensibilità – esordisce il maestro Viani –. Sappiamo bene che trovarne oggi, superata la crosta della superficialità di facciata, sia molto difficile. L’arte è tutto un sogno, è tutto un altro mondo. Ed è così, quando vengo nel mio studio e mi estraneo per entrare nell’universo delle favole. La pittura è immaginifica, fiabesca, racchiude una serie di cosmi che si intersecano per dare vita a ciò che sei. La fotografia? Evitando divagazioni, scorciatoie e inserimenti d’autore, ciò che immortali negli scatti è il ‘normale’, con il pennello invece crei".
Fra i pittori del passato, al di là dell’aspetto artistico, di chi ammira più la vita?
"In generale dei pittori del Rinascimento, in particolare mi ha sempre incantato Raffaello. Perché era un pittore di corte, a differenza di Caravaggio e Leonardo, che dovevano barcamenarsi con i problemi del quotidiano. Per lui, che apprezzava il buon cibo e le belle donne, era un contesto idilliaco per produrre le proprie opere. Magari gli altri erano più artisti di lui, ma con una vita tormentata, che non ha garantito loro la serenità personale".
Come è cambiato nell’arco degli ultimi decenni, l’impegno della gente nell’acquisto di quadri?
"Con l’uscita delle apparecchiature elettroniche, che siano smartphone, tablet o computer, si è messo da parte l’interesse per le opere. Non ci sono dubbi sulle priorità della società di oggi: meglio il nuovo modello di telefonino, dell’arte. E pensare che c’è stato un periodo in cui bastava buttar giù uno scarabocchio, che le persone volevano accaparrarselo a tutti i costi. Parlo degli anni Ottanta, ma anche subito dopo. Un boom dove pure chi aveva disponibilità minime, acquistava, abbracciando l’arte, con i pochi risparmi, per elevarsi idealmente almeno all’altezza del ceto borghese medio".
L’arte rimane comunque un buon investimento, oltre al piacere di possedere un’opera?
"Inteso come accantonamento per guadagnare? Ci credo poco. Chi ha comprato anni fa, ha davvero poco valore appeso ai propri muri. Naturalmente parlo di autori di livello ‘regionale’, non del Gotha a livello internazionale, in continua esponenziale crescita".
Quali sono, tra i nuovi soggetti, quelli più accattivanti?
"Il paesaggio non lo compra più nessuno, sebbene tanti pittori continuino a realizzarlo. Del quadro astratto ci si stufa presto: di quando ti arriva un ospite in casa e senza mezzi termini ti dice sul muso ‘E questo, che cavolo è?’; ovviamente tu non sai cosa rispondere, se non quanto hai letto sul testo critico di chi ti ha propinato il soggetto. Quale genere piace? Quello d’impatto. Piacciono i quadri che fanno arredamento".
Quale direzione sta prendendo l’arte?
"Il classico non tramonta mai, ed ecco che la tendenza, nel mondo moderno, è il ritorno al figurativo. L’arte astratta ha avuto un exploit poi è rimasta nei musei. L’astratto va raccontato e c’è chi, attraverso i cataloghi, i critici, le proprie abilità oratorie, lo fa con dovizia. Ma se alla base non c’è la preparazione, la tecnica di esecuzione, non prevali più. Come nel teatro, è complicato proporre qualcosa di veramente innovativo, a cui qualcuno, prima, non abbia già pensato".
Sport e arte, lei sa come accomunarli...
"Per mezzo della capacità di trasmettere. Si può essere un fuoriclasse in campo, ma quando si esce fuori, non avere la capacità, la volontà e le doti morali per insegnare. Una scuola di pittura è per me uno dei sogni avverati: ho 120 allievi, 50 dei quali sono bambini, giunti perfino dalle province limitrofe. I genitori dei piccoli sono contenti per tanti motivi, due in particolare, come è giusto che sia: perché l’arte è fonte di accrescimento culturale personale, e poi perché finalmente i ragazzi abbandonano, seppur per qualche ora, il demoniaco telefonino. Con estremo entusiasmo propongo a loro disegni (molti manga) e a chi vuole cimentarsi nel riprodurre un’opera da museo, approfondisco la vita dell’autore".
Per chi insegna qual è la maggior soddisfazione?
"Poter arrivare a trasmettere tutti i miei segreti, dopo un cammino artistico di 50 anni senza alcuna agevolazione, è affascinante. E se qualcuno riesce a emergere grazie alle tecniche che ha appreso, non bastano i complimenti. È vera gioia. Ho iniziato a sei anni a produrre le mie prime opere ed è gratificante, alla mia età, quando vieni interpellato anche solo nel decidere l’acquisto del tubetto di colore perfetto".
I bambini di oggi hanno la stessa fantasia di una volta?
"Sì. Sono semplicemente diversi. Da scalzi e con i pantaloni bucati riuscivamo a sognare di più. Adesso hanno tutto e ogni esperienza è basata su ciò che assorbono da internet e dalla televisione. La tecnologia smorza la creatività, è una via dispersiva delle menti, pur aperte che siano".
Crede di lasciare ai giovani un mondo migliore o peggiore di quello vissuto nella sua giovinezza?
"Sicuramente peggiore. In un palazzo di dieci inquilini, quasi non ci conosciamo. E sto in un paese. Un tempo lasciavamo le chiavi sulla porta, ma l’armonia ormai è cosa dimenticata. Accendi la tv, vanno in onda i telegiornali e speri, ogni giorno, che tutto ciò che ascolti non sia vero. Non riuscirò mai a comprendere le nefandezze che il genere umano compie quotidianamente".
Quali qualità apprezza maggiormente nelle persone?
"L’umiltà, la sincerità e l’amicizia. Negli ultimi anni mi sono rinchiuso in me stesso, ma dal mio lontano punto di osservazione, noto tuttavia rarefatte tracce di ognuna".
La politica ha mutato radicalmente protagonisti, modalità comunicative e contenuti. E il fine sociale?
"Sono sempre stato apolitico, mai interessato alle vicende di palazzo. Di sinistra o di destra... è sempre la stessa minestra. La politica si interessa dell’arte e degli artisti? Sì, ma solo per raccomandare, ‘spingere’ quel soggetto a discapito di quell’altro. Spesso non esistono dei progetti collettivi generali, ma ad personam".
Il Camec gestito dalla Fondazione Carispezia. Cosa cambierà adesso?
"Spero tutto. Non ho mai creduto molto in certi ambienti. Non ho mai chiesto e non sono mai stato chiamato. Insomma, nessuno mi ha mai detto di no, ma è pur vero che, sovente, sono stato tagliato fuori, come altri colleghi, per chissà quale motivo. Se esisterà uno spazio dedicato ai pittori locali, a prescindere da me, sarà un passaggio interessante e posso pure dire che fosse l’ora".
Insomma, per cosa vale la pena lottare?
"Non ho dubbi: la famiglia, i figli. Gli unici valori importanti. Per loro agirei in qualsiasi modo e così credo che dovrebbe comportarsi chiunque. Sempre nel rispetto comune e reciproco, a livello globale".