La Spezia, 5 dicembre 2021 - Lui non è più su questa terra dal settembre del 2016. Quando ha esalato il suo ultimo tribolato respiro aveva 89 anni. Gli ultimi cinque anni di vita si erano rivelati un calvario. Grandi sofferenze per il malato e per i familiari che lo assistevano che ora, alla distanza, trovano un primo conforto dalla giustizia nella forma di una sentenza emessa dal giudice del lavoro Giampiero Panico. Il magistrato ha riconosciuto il danno da sofferenze fisiche e quindi della sua risarcibilità nel quadro delle dinamiche ereditarie. A pagare il conto sarà il Ministero della Difesa, ritenuto responsabile della malattia – il mesotelioma pleurico – in conseguenza delle mancate precauzioni per eliminare l’insidia nel luogo di lavoro: il laboratorio chimico di Mariperman nel quale operava il lavoratore.
Si chiamava Renato Perroni. Andò in pensione nel 1984. Era sano come un pesce, all’epoca. Poi le fibre killer annidate da decenni nei suoi polmoni hanno innescato la malattia e, quindi, la morte. La scomparsa dell’ex lavoratore, e quindi le sofferenze indotte dalla stessa nei familiari, sono al centro della causa civile in corso davanti al giudice Cristiana Buttiglione del Tribunale di Genova, competente per i decessi da amianto riconducibili alle pubbliche amministrazioni del territorio ligure. Intanto arriva il primo verdetto-conforto, quello connesso alle sofferenze patite in vita dal lavoratore, il cui risarcimento si riverbera sui familiari: la moglie e tre figli, assistiti dall’avvocato Roberto Quber che ha centrato un primo obiettivo nell’articolata, e complessa, offensiva sviluppata in punto di diritto. Uno dei figli di Renato, Massimo, facendosi portavoce di tutti i familiari, ci racconta le sofferenze del papà: "Fu un calvario; si consumò lentamente. Alla fine papà era uno scheletro: pesava 35 chili. Non capì mai che la malattia fu causa del lavoro svolto con grande passione ma senza salvaguardie".
Ci spieghi... "Mio padre era addetto al laboratorio di chimica applicata. Un ambiente pericoloso, basti pensare che le reticelle spargifiamma sopra le quali venivano portati ad alte temperature i contenitori con liquidi oggetto di sperimentazione erano, nella zona centrale, in amianto che con l’usura si sbriciolava; gli addetti al laboratorio tagliavano manualmente, con forbici e taglierine, fogli di amianto; maneggiavano fogli di amianto che manualmente ponevano sulla fiamma libera per portare ad essiccazione i prodotti oggetto di sperimentazione; l’amianto usurato veniva gettato in un cestino dei rifiuti aperto, sito in laboratorio. Il datore di lavoro, ossia il Ministero della Difesa, aveva l’obbligo di dotare di cappe aspiranti tutte le cinque postazioni di lavoro del laboratorio, invece tre ne erano prive. Le cinque postazioni, inoltre, avrebbero dovuto essere separate tra di loro con paratie, invece erano situate in un open space e, quindi, l’amianto proveniente da una di esse si disperdeva nell’ambiente di lavoro e veniva inalato da tutti gli operatori. Da tempo è tutto in regola ma quando mio padre era in servizio mancavano le minime precauzioni".
Tutte queste circostanze sono state evidenziate da Quber nella ricostruzione storica sviluppata nel ricorso che ha trovato riscontro nelle testimonianze rese in aula anche da testi citati dall’Avvocatura dello Stato. Si tratta della prima sentenza spezzina in materia di amianto che riguarda Mariperman. In parallelo si sta sviluppando la causa civile a Genova per dei danni derivati dalla sofferenza dei familiari per aver perso il congiunto.