"La paura? È qualcosa di legato alla nostra vita quotidiana. Nel nostro cervello c’è sempre lo spazio per immaginare quello che ci fa paura, abbiamo il terrore di cose che immaginiamo come la morte. Poi se le cose vanno diversamente da come le immaginavamo, allora siamo felici, se invece vanno male allora scatta il terrore".
Parlando di paura, l’autore di fumetti Gou Tanabe (J-Pop Manga) è decisamente un esperto. Infatti, tutta la sua attività artistica consiste nel trasporre in immagini le opere di H. P. Lovecraft, re del terrore nella letteratura. Nato a Tokyo nel 1975, pluripremiato in tutto il mondo, Tanabe (che sabato 2 novembre alle 16 incontrerà il pubblico nell’Auditorium di San Romano) ha uno stile iperdettagliato. A Lucca presenta I gatti di Ulthar e altre storie, una raccolta di racconti del cosiddetto Ciclo del sogno di Lovecraft.
Ma che cos’è che ci fa paura?
"Quello che non conosciamo, realtà ome lo spazio infinito o gli abissi del mare. Ci fanno paura quelle situazioni che vanno oltre le nostre conoscenze, in cui ci perdiamo e non sappiamo più chi siamo".
Come ha fatto a dare materialità alle creature aliene raccontate da Lovecraft?
"Le opere di Lovecraft in effetti descrivono con poche parole. D’altronde, ognuno di noi leggendo un libro si può immaginare nella sua mente quello che c’è scritto nel testo. Così faccio anche io, poi realizzo tante immagini e alla fine scelgo quella che più si avvicina all’originale scritto nel libro".
Qual è l’opera di Lovecraft che preferisce?
"La maschera di Innsmouth in cui si parla anche della parte interiore del protagonista".
Quando ha scoperto Lovecraft?
"Avevo 25 anni e ho conosciuto i suoi libri quando ho deciso di fare manga".
E il primo libro qual era?
"L’estraneo, che poi ho scoperto avere punti in comune con il mio preferito, La maschera di Innsmouth".
Lavorando sui libri di Lovecraft fa mai brutti sogni?
"A volte mi capita in certi punti di volermi nascondere scivolando sotto la sedia come al cinema, quando si è impressionati da una scena. Ma nessun incubo, il lavoro in sé è un incubo".
Roberto Davide Papini