FEDERICA BERTOLLI
Cronaca

'La mia visita nell'orrore di Auschwitz'

Nel racconto di Federica Bertolli il doloroso viaggio nella memoria dei campi di sterminio

Federica Bertolli ad Auschwitz

Lucca, 24 gennaio 2019 - Una lucchese in visita ai campi di sterminio di Auschwitz - Birkenauz. Ecco il racconto di questo recente viaggio che comparirà anche nel suo blog «Look Mummy!» http://federicabertolli.com

 Il viaggio della memoria inizia da qui, 8 gennaio 2019. LA PARTENZA  Siamo in treno, comodamente seduti, al caldo, illuminati e informati. Abbiamo salutato i bambini dai nonni, Smilla di tre anni non tratteneva le lacrime, Logos di sei sfuggiva lo sguardo per non vederci uscire. È la prima volta che partiamo senza di loro, è un distacco doloroso ma obbligato. Non andiamo in vacanza da soli, andiamo a visitare un luogo lontano dove i bambini non possono entrare. Faremo delle fotografie e dei video che potranno vedere, molte altre no, almeno per ora. Il mio pensiero va alle migliaia e migliaia di persone che venivano fatte salire sui treni della morte, accompagnate da urla di soldati e cani. Ammassati in treni piombati, su vagoni per il trasporto del bestiame, riempiti fino a non riuscire quasi a sedersi. Così viaggiavano per qualche giorno, con un po’ di cibo, poca acqua, senza finestre, escrementi a terra, vicino ai corpi di chi non ce l’aveva fatta.   Sono nata nel 1974 e ho sentito parlare della guerra e dei tedeschi dai miei genitori, che l’hanno vissuta. La mamma era in collegio con la sua sorella gemella, per il resto della sua vita non poteva sentire il rumore di un aereo basso senza che le si gelasse il sangue. Mi raccontava che quando c’erano i bombardamenti a Firenze si rifugiavano tutte insieme in cantina e giocava con una bambolina che aveva chiamato Allarmina. Il babbo invece aveva i tedeschi in casa. Avevano scelto la casa di campagna sulle colline tra Lucca e Viareggio della famiglia del mio nonno, per stabilire lì il quartier generale della zona. Il mio babbo aveva imparato il tedesco con la Fräulein che l’aveva cresciuto e ai soldati tedeschi serviva un interprete. Aveva tredici anni e più di una volta ha avuto paura di morire. Credo che la sua ossessione di essere in regola per paura delle guardie non lo abbandonerà mai. Io ho avuto incubi dei tedeschi in guerra da sempre.   9 Ggennaio 2019, in treno. Siamo sull’Eurocity che abbiamo preso ieri sera a Firenze. Ci siamo svegliati tra i boschi innevati, guardiamo dal finestrino e cerchiamo di immaginare come si sentivano i deportati su queste rotaie, al buio, al freddo, assetati, cacciati dalle proprie case, dalla vita che non avrebbero avuto più. Caffè alla stazione centrale di Vienna, biglietti per Breclav nella Repubblica Ceca e si continua il viaggio.    Laghi ghiacciati, campi ricoperti di neve, nidi di vischio avvinghiati agli alberi spogli. A un tratto tre lepri escono dai cespugli e corrono libere sulla neve. Libertà e prigionia, magia della neve che copre e livella, orrore della violenza e dell’inganno, diabolica organizzazione consapevole di sterminio di massa. Con il passare delle ore e delle terre la nostra vita a casa è sempre più lontana e silenziosa. Ci avviciniamo al tempio della morte per eccellenza. I nostri cuori iniziano a tremare.    Arrivati a Breclav dobbiamo aspettare che apra lo sportello della biglietteria internazionale. La signora è gentile e riusciamo velocemente a prenotare l’intercity che ci porterà alla destinazione finale: Oswiecim, la cittadina polacca che i tedeschi chiamavano Auschwitz.

LA FOLLIA NAZISTA - I primi campi di concentramento in Germania furono aperti nel 1933, per imprigionare gli avversari politici del regime nazista, i cosiddetti “elementi non assimilabili, oltre agli Ebrei. A partire dal 1940, dopo l’invasione di buona parte dell’Europa centrale da parte della Germania, furono costruiti altri campi di concentrazione nei paesi occupati, campi di sterminio solo in Polonia. Il Konzentrationslager Auschwitz fu inaugurato nel 1940, come ampliamento delle caserme dell’esercito polacco. Qui venivano reclusi prevalentemente polacchi, infatti Prima della Guerra Oświęcim contava 12 mila abitanti, di cui 7 mila Ebrei. Per costruire il Lager i tedeschi hanno distrutto le case che si trovavano intorno alla ex-caserma polacca, sfollando gli abitanti di otto paesi delle aree limitrofe. Tutti gli Ebrei e numerosi polacchi considerati prigionieri politici furono internati, altri deportati in Germania ai lavori forzati. Sulla brochure del Museo ex Campo di Auschwitz-Birkenau si leggono alcune dichiarazioni dei massimi esponenti del partito nazista, diffuse prima della guerra: „GLI EBREI SONO UNA RAZZA CHE DEVE ESSERE SOTTOPOSTA ALLA COMPLETA DISTRUZIONE”. Hans Frank, Governatore Generale della Polonia occupata. „DOBBIAMO LIBERARE LA NAZIONE TEDESCA DA POLACCHI, RUSSI, EBREI E ZINGARI”. Otto Thierack, Ministro della Giustizia del III Reich. „IL COMPITO PRINCIPALE È RINTRACCIARE TUTTI I DIRIGENTI POLACCHI, [...] PER POTERLI RENDERE INNOCUI. [...] TUTTI I PROFESSIONISTI DI ORIGINE POLACCA VERRANNO IMPIEGATI FINO ALLO SFINIMENTO NELLA NOSTRA INDUSTRIA BELLICA. E POI TUTTI I POLACCHI VERRANNO ELIMINATI DALLA FACCIA DELLA TERRA”. Heinrich Himmler, Reichsführer SS.

 Nei campi si trovavano infatti oltre agli Ebrei, che costituivano la maggior parte degli internati, anche oppositori politici, prigionieri di guerra (prevalentemente sovietici), Rom, omosessuali, Testimoni di Geova (a causa dell’obiezione di coscienza e il rifiuto del patriottismo) e tutte le persone che rappresentavano una potenziale minaccia per il Terzo Reich. A partire dal 1942 Auschwitz divenne il principale centro di sterminio di massa degli Ebrei europei. Il campo originario Auschwitz I, già allargato, venne esteso con un secondo campo, Auschwitz II, nei terreni vicini di Brzezinka, ribattezzata Birkenau. Qui vennero costruite delle baracche di legno e quattro forni crematori, per smaltire i corpi delle persone uccise nelle camere a gas con lo Cyklon B, un insetticida per animali. Le stime riportano 1,3 milioni di persone internate nel campo di Auschwitz, di cui 1,1 milione di Ebrei, di questi ne furono uccisi 1 milione (solo in questo campo). Ma questi numeri non possono considerare le migliaia di persone che, scese dal treno, venivano ritenute inabili al lavoro: i bambini, anziani, malati o donne incinte. Tutti questi andavano in fila diretti alle camere a gas, senza essere neanche registrati, né marchiati con un numero. 

10 GENNAIO 2019 - AUSCHWITZ Siamo appena tornati dalla visita al Museo dell’ex campo di Auschwitz, dall’altra parte del parco qui davanti. La nostra guida Margherita ci ha consegnato i documenti con l’autorizzazione a fare fotografie e video e mi ha chiesto di attaccare un adesivo sulla giacca per essere riconoscibile all’interno del campo. Eravamo nello stesso edificio dove i deportati venivano spogliati, rasati e tatuati. Stamattina ho varcato il cancello “Arbeit macht frei” con un’etichetta sul petto, in cuor mio in memoria dei distintivi cuciti alle divise a righe dei deportati: stella di Davide per gli Ebrei, triangolo rosso per i prigionieri politici, nero per gli asociali (Rom), rosa per gli omosessuali, ogni categoria ne aveva uno diverso. Sembra incredibile ma sono riusciti a conservare quasi tutto com’era durante la guerra, in alcuni blocchi sono allestite delle mostre, in altri il museo con fotografie e resti di quello che trovarono dopo la liberazione. 

Non ci sono parole per descrivere questo luogo, né la crudeltà che ha regnato, in crescendo, per cinque anni. Le fotografie degli internati torturati e uccisi sono atroci, ma quando sono entrata nella sala dove sono conservati due delle otto tonnellate di capelli ritrovati nel campo non sono riuscita a trattenere le lacrime. Una catasta immensa di capelli: chiari, scuri, intrecciati, pettinati. Solo una minima parte, capelli di donne uscite dal camino in pochi giorni, gli ultimi non ancora spediti al Terzo Reich per imbottire materassi o uniformi delle SS. Le persone che arrivavano qui pensavano di iniziare una nuova vita e portavano gli oggetti più preziosi con sé: oro, gioielli e utensili per la vita quotidiana, per un massimo di venticinque chili a testa. Una fotografia ritrae il binario del treno poco dopo uno dei continui arrivi giornalieri: guardie e detenuti addetti a recuperare i bagagli abbandonati dopo la selezione. L’organizzazione era assoluta, ogni cosa veniva assimilata ad uso del Terzo Reich. La stessa cosa succedeva negli spogliatoi prima di entrare nelle camere a gas, o dopo, quando una squadra speciale chiamata Sonderkommando, composta da detenuti, aveva il compito di tagliare i capelli e strappare i denti d’oro ai corpi prima di portarli al piano superiore, dove venivano bruciati nei forni crematori. Shlomo Venezia, uno dei pochissimi Sonderkommando sopravvissuti, nella sua testimonianza racconta che arrivato a Birkenau aveva detto di essere un barbiere ma gli unici capelli che ha tagliato erano quelli dei corpi usciti dalle camere a gas. Il suo amico dentista invece strappava i denti d’oro che poi venivano fusi in lingotti e trasportati in Germania.

Nel blocco 21 abbiamo visitato l’esposizione dei disegni di un altro prigioniero della squadra del Sonderkommando a Birkenau. David Olère era un pittore e scenografo francese di origine polacca, dopo la liberazione iniziò a disegnare e dipingere l’orrore che aveva vissuto nel campo. I suoi quadri urlano l’incubo della violenza folle inflitta a chiunque arrivava in quell’infermo. “I bambini disegnano quello che vedono” è la mostra nel blocco 27 dedicata ai bambini. Un’artista israeliana ha riprodotto i disegni dei bambini prigionieri dei campi che furono ritrovati dopo la liberazione. Non si vedono prati, case, sole e giochi, ma bombardamenti, fucilazioni, treni in arrivo al campo, impiccagioni. Domani andiamo a Birkenau, il campo costruito appositamente per lo sterminio di massa, aperto nel 1942, per attuare la cosiddetta “Soluzione finale alla questione ebraica”.

11 GENNAIO 2019 BIRKENAU In polacco Brzezinka, ovvero il paese delle betulle, un terreno paludoso, abitato prima della seconda guerra mondiale da contadini. Stasera tornando a piedi da Birkenau verso Auschwitz abbiamo trovato un pannello con delle fotografie per strada, tra le vie del paese. Le fotografie mostrano i contadini in partenza dalle proprie abitazioni, sfollate nel 1941. I materiali degli edifici distrutti servirono per costruire parte delle baracche del campo. La superficie riservata all’intero complesso di Auschwitz-Birkenau ricopriva quaranta chilometri quadrati. Oltre ai tre principali: Auschwitz, Birkenau e Monowitz (dove fu internato Primo Levi), c’erano una cinquantina di campi sussidiari, costruiti dai prigionieri, principalmente nei pressi di miniere, fonderie, stabilimenti industriali e fattorie. La prima parola che mi viene pensando a Birkenau è: immenso. Ora è tutto ricoperto di neve e si fa fatica a vederne i confini, nonostante il filo spinato (che durante la guerra era a 700 V), e le torri di controllo. Entrando dalla rampa ferroviaria, che portava i treni direttamente dentro al campo di sterminio si trova un vagone per il bestiame, come quelli usati per i deportati. Chi era sopravvissuto ai viaggi estenuanti da ogni parte d’Europa trovava la morte appena sceso dal treno. La maggior parte delle persone che arrivavano a Birkenau non passava la selezione e andava nella colonna verso la camera a gas. Alcuni treni arrivavano ancora più avanti, all’ingresso dei forni crematori. Le selezioni erano state fatte prima di partire, erano tutti destinati a essere uccisi appena arrivati.

Il primo forno crematorio fu realizzato nel campo di Auschwitz, ma non era abbastanza efficiente, a Birkenau costruirono i forni più grandi No.2 e No.3 in fondo al campo, e ancora No.4 e No.5 nascosti al confine con il bosco. Ma non bastavano mai, arrivavano migliaia e migliaia ogni giorno, spesso dovevano aspettare di essere uccisi fuori dalle camere a gas. Anche i forni crematori erano affollati e spesso bruciavano i corpi a cielo aperto. A destra di trovano i settori maschili, con baracche in legno, come quelle delle scuderie per cavalli, ancora come animali. Per le SS erano economiche, veloci da montare e smontare all’occorrenza, come fecero alla fine del 1944, quando iniziò lo smantellamento per distruggere le prove dei crimini commessi.

A sinistra le baracche di mattoni nel settore delle donne. Furono le prime ad essere costruite, dopo optarono per quelle in legno. Le donne erano meno degli uomini: uccise appena arrivate insieme ai propri bambini con una puntura di fenolo al cuore o gassate e incenerite. Spesso una donna prendeva più bambini e li accompagnava a morire salvando qualche amica, sorella o figlia. Dall’esterno queste baracche sembrano quasi delle case ma appena entrati si sente la morte con gli occhi e con il cuore. Due file di tavole per dormire e l’ultima direttamente a terra, con un po’ di paglia marcia. Molti avevano la dissenteria e si capisce che chi riusciva a salire in cima al castello era fortunato. 

Tra i forni e il bosco c’è un blocco dove chi era scampato alla selezione iniziale veniva spogliato, rasato, tatuato, lavato con un getto di acqua gelata o bollente e vestito, se così si può dire, con una divisa usata “disinfettata” con il vapore e consegnata bagnata. Niente biancheria, calze, cappotto o altro indumento. Da quel momento solo un numero tedesco, vietato farsi chiamare per nome o parlare la propria lingua. I cinquecento bambini, cavie di Josef Mengele, trovati dai russi alla liberazione non sapevano più come si chiamavano, né parlare la propria lingua. In questo edificio sono esposte le fotografie ritrovate in una valigia sotterrata con i ricordi di persone, famiglie intere, non numeri. Siamo abituati a pensare alle vittime della Shoah (che non si possono contare, dato che chi era selezionato per la camera a gas appena arrivato non veniva neanche registrato), come spettri che camminano, a vedere i volti emaciati, senza capelli, con gli occhi vuoti. In questi pannelli si vedono persone vere, famiglie felici e spensierate, feste, neonati, primi passi, primi bagnetti, uomini in giacca e cravatta, donne con vestiti e cappelli. Tutti andati in fumo. Proprio in fondo, prima del forno No.3 si trovava la baracca dove Mengele torturava le sue vittime con esperimenti di tutti i tipi, soprattutto su bambini e gemelli. Crudeltà pura, senza limite né anestesia. Anche la mia mamma aveva una gemella, uguale, sarebbero finite qui di sicuro, me lo diceva sempre.

MAI PIÙ

IL SILENZIO DEI SOPRAVVISSUTI “Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti” Primo Levi. I pochissimi che hanno avuto la fortuna nella sfortuna di essere deportati nell’ultimo periodo prima della liberazione, o quanti avevano una dote o professione utile alle SS, chimico come Primo Levi, illustratore come David Olère, violinista come Helena Dunicz Niwińska, hanno avuto più possibilità di altri di salvarsi. Per questo hanno sofferto tutta la vita per il senso di colpa e la vergogna di essere usciti da quell’inferno, dove avevano visto morire, o semplicemente non visto più, tutti i membri della propria famiglia. Durante la guerra le case degli ebrei erano state occupate dai vicini, intere famiglie sparite, nessun ricordo, niente di niente. E i pochi sopravvissuti non potevano parlare di quanto avevano vissuto, gli orrori della prigionia e dello sterminio. Chi aveva denunciato, o semplicemente assistito alla deportazione di massa non voleva sapere dove erano andate quelle persone o che cosa fosse accaduto dopo. In Polonia tutti i ragazzi sono obbligati a visitare questi luoghi almeno una volta. Spero che anche in Italia si arrivi a questa consapevolezza.

Non ci sono parole per descrivere che cosa si vede o raccontare i crimini atroci commessi qui, nel cuore dell’Europa, tra boschi ricoperti di vischio portafortuna. Solo camminando sulla neve ghiacciata, tra filo spinato, rovine dei forni crematori, baracche con file di buchi uno attaccato all’altro per liberarsi dagli escrementi, fosse scavate dai prigionieri e binari che portano alla morte si può sentire le urla delle innumerevoli persone a cui è stata rubata la vita.