"Sono stato io, non mi interessa quanto lunga sarà la pena, voglio pagare". Poche parole, in preda allo choc, dette da Marian Tepa, il 52enne fermato per l’omicidio di Artan Kaja, che al momento si trova nel carcere San Giorgio di Lucca. Se inizialmente si pensava che ’Tony’, come tutti chiamavano Kaja, fosse morto per un malore fulminante mentre si trovava nella sua ditta, all’interno della cartiera Smurfit Kappa di Lunata, lo scorso 7 gennaio, con il passare delle ore la verità è venuta a galla.
L’uomo è stato freddato con un colpo di pistola da distanza ravvicinata, sparato dal connazionale Tepa, che da anni conosceva. L’omicida, secondo una prima ricostruzione, avrebbe studiato nel dettaglio il piano per intrufolarsi all’interno della struttura. Sarebbe passato dal cimitero della frazione di Lunata, per poi scavalcare un muro e trovarsi alle spalle di Artan Kaja, per poi sparargli il colpo mortale. Tanti, però, i punti interrogativi che ancora non sono stati chiariti. In primis il movente, visto che l’uomo, dopo essersi subito costituito dai carabinieri e aver ammesso la sua responsabilità, si sarebbe chiuso in uno stato di mutismo. Da una serie di indiscrezioni, i due connazionali, entrambi residenti a Capannori (Lu) avrebbero avuto vari dissapori, sia a livello personale che professionale.
Negli scorsi mesi avrebbero avuto anche un alterco, proprio nello stesso luogo dove poi Kaja è stato ucciso. E poi l’arma del delitto, non ancora ritrovata. Tepa avrebbe buttato via sia la pistola che il cellulare nelle ore successive al delitto. La giornata di oggi potrebbe essere significativa, visto che nella casa circondariale lucchese verrà svolto l’interrogatorio di garanzia con il giudice per le indagini preliminari Simone Silvestri, alla presenza del difensore, l’avvocato Mara Nicodemo e al tribunale di Lucca ci sarà l’udienza di convalida.
Nel frattempo alla Smurfit Kappa, cartiera di Lunata dove si è consumata la tragedia, ieri il clima era decisamente pesante. "Screzi tra loro? E’ normale che ve ne siano in un ambiente di lavoro – spiegano una persona che conosceva la vittima, ma chiede di mantenere l’anonimato, – succede ovunque, immaginiamo in qualunque settore. E’ fisiologico che sia così. Si era sentito dire di qualche litigio. I rapporti erano tesi, forse c’era del rancore per questioni lavorative, ma ripeto, era considerato un fatto logico".
Iacopo NathanMassimo Stefanini