Enrico Pea “scalpellatore di parole e di uomini” è la definizione che Eugenio Montale dette dell’amico: parole che raccontano, dello stile narrativo di Pea, tutto il rapporto con il figurativo che ben si evince dal percorso espositivo allestito nella sala Tobino di Palazzo Ducale, visitabile a ingresso libero fino al 12 gennaio.
Marcello Ciccuto, già docente ordinario di Letteratura italiana all’Università di Pisa, curatore della mostra insieme a Giovanna Bellora, presidente dell’associazione “Amici di Enrico Pea” e pronipote dello scrittore, parte proprio da questa citazione per raccontare il rapporto stretto di Pea con l’arte figurativa e con alcuni esponenti ed amici in particolare.
Nel suo saggio in catalogo, Ciccuto parla infatti, per Pea, di “una scrittura fatta di elementi ‘figurativi’ (e talora di riscontro esplicitamente scultoreo), di una potenza e capacità rappresentativa che possiamo documentare nutrite dall’apporto di circostanze ed elementi di effettiva derivazione artistica, tali da poter essere considerati in sospensione, interni cioè a quel bagno culturale dove si riconoscono diversi momenti o stagioni del rapporto di Pea con gli artisti e le arti del suo tempo: quindi anche più specificamente caratteristici del rapporto con alcuni dei suoi primi amici o frequentatori”.
Tra questi troviamo Lorenzo Viani, primo copertinista di Pea, del quale in mostra ci sono dipinti, acquerelli, olii, xilografie e anche una matrice originale in legno, ma anche Plinio Nomellini: suo il “Paesaggio bucolico” esposto a Palazzo Ducale.
“Sulla linea di una poetica anti-naturalistica precocemente legata al radicamento di immagini scelte allora da Viani per via di accenti luciferini, tematiche di carnalità e di tragedie della follia, con serpenti di fuoco, mostri artigliati, la Morte onnipresente, figurazioni di destini crudeli come quello di Golia pastore, gelosia di madre per il figlio che si sposa e via dicendo che evidentemente convenivano anche allo spirito del primo Pea – scrive Ciccuto – avvenne un autentico passaggio di consegne culturali” che li accosta – prosegue nel saggio – ad un altro “amico della prim’ora quale fu il Moses Levy acquafortista che durerà assai nel tempo”, chiamato a “mediare – prosegue Ciccuto - fra i "cupi miserabili di Viani e gli eroici cavatori di Giuseppe Viner, i gorghi infuocati di cielo, di fronde e di luci di Nomellini e le ortogonali tardo macchiaiole" (Giannotti), in sintesi formali e poi cromatiche che all’occhio di Pea dovettero identificare – come ebbe a rilevare Antonio Corpora proprio in merito alla pittura levyana – dei "quadri esiste la vita, fattasi ordine e ritmo, fattasi legge nell’animo d’un uomo che poi la scrive chiara e commovente per mezzo di colori, di toni, di volumi, di linee"”.
Anche per Levy, numerose sono le opere in mostra: carboncini, acqueforti, monotipie colorate a olio, xilografie.
Ecco, così, dove nasce, quella “scrittura plastica non più abbandonata, caratterizzante i registri più profondi della sua così singolare narrativa”, con una “attitudine valida comunque sia in poesia sia in prosa, di rara intensità espressiva come del resto rilevato da quelli fra i critici del nostro ’900 che furono più attenti a quei versi non a caso detti anche ‘di pietra’”. Non a caso, di certe pagine di Pea, Italo Svevo ebbe a dire "sono di una forza e di una evidenza che fanno invidia".