Anno funesto, anno di disgrazie per l’Italia intera e anche per Lucca e il suo contado. Il 1630 e soprattutto l’anno successivo, si rivelarono anni tragici, con la loro lunga striscia di morti descritta anche dal Manzoni. Importato dai Paesi asiatici, in Italia si diffuse rapidamente il morbo della peste a partire dai maggiori centri del commercio internazionale. E Lucca con tutti i suoi traffici commerciali per la seta fu tra le prime città a subirne le conseguenze.
Inizialmente, però, nell’estate del 1630, l’epidemia fu sottovalutata e a fronte di qualche contagio non furono presi provvedimenti ferrei di controllo. Solo in autunno, verso novembre, quando la situazione era ormai sfuggita di mano, la città provò ad arginarla senza successo. L’ingresso al territorio lucchese e ancor più alla città veniva impedito ai forestieri, ma anche alle merci provenienti dalle città infette e così pure ai lucchesi fu vietato avere rapporti commerciali con le città del Granducato da cui si temeva il contagio.
Solo verso Pisa e Livorno, c’era una maggiore apertura, ma solo perché erano quelle con cui i mercanti lucchesi lavoravano di più e c’era bisogno di non far crollare gli affari. Chi voleva entrare in città doveva essere munito di un certificato sanitario di idoneità mentre le merci venivano messe in “quarantena“, per far esaurire ogni possibile effetto di contagio. Ma ormai la peste era entrata anche in città, complice, si dice, una balla di canapa infetta proveniente da Bologna. E se nell’inverno del 1630, la progressione del contagio fu lenta, con l’arrivo della primavera e del caldo, nel 1631, anche a Lucca si scatenò l’inferno. Non passava giorno che si registrassero nuovi decessi, tanto più nelle campagne dove i controlli e le possibilità di cura erano molto inferiori.
Ormai in giro per la città si aggiravano solo i “becchini“ con i loro carri carichi di morti e i capofamiglia, gli unici autorizzati a lasciare l’abitazione, per compiere gli acquisti necessari. Furono vietati gli assembramenti di persone e le veglie per chiedere l’intervento del Volto Santo dovettero svolgersi obbligatoriamente all’aperto. Gli “appestati“ venivano presi e portati nei lazzaretti aperti fuori città. L’ingresso nel lazzeretto per i contagiati era come l’entrata all’inferno, un posto dal quale difficilmente sarebbero usciti con le proprie gambe. Poche erano le possibilità di cura e anche tanti degli stessi medici curanti finirono con l’essere contagiati. Meglio andò ai nobili e ricchi che cercarono rifugio nelle loro ville di campagna, isolandosi dal mondo circostante e riuscendo in buona parte a sfuggire alle conseguenze del morbo e alle restrizioni poste dalle autorità.
Alla fine di questa grande ondata di peste, che andò esaurendosi nei primi mesi del 1632, la città aveva perso un terzo dei propri abitanti, gran parte delle case erano chiuse mentre in campagna i numeri erano ancora più alti. Si calcola che la popolazione lucchese si ridusse di ben 15.000 unità, tra cui anche Lucida Mansi, ma per lei fu l’inizio della leggenda.