"Hanno provato a censurarmi" ha detto Beatrice Venezi dal palco del Summer Festival, poco prima di girarsi con un colpo di coda e dare il la al fuori programma, che tanto fuori poi non era. L’Inno a Roma è stato un brano discusso all’interno del Comitato per le celebrazioni pucciniane. Le riunioni sono secretate, ma questo passaggio è noto perché è stato lo stesso direttore d’orchestra a rivelarlo al nostro giornale prima del concerto. In quella stessa occasione ha fatto i nomi di due membri del Centro Studi Puccini che siedono nel comitato, Gabriella Biagi Ravenni e Michele Girardi. Facile, quindi, dedurre a chi si stesse rivolgendo da quel pulpito. E il messaggio ha fatto presto a raggiungere anche chi non era in platea martedì sera.
Altrettanto celere è stata la replica. "Durante la riunione del Comitato del 4 luglio abbiamo chiesto con insistenza di conoscere il programma del concerto e il presidente ce lo ha letto, comprendendo i due bis - scrivono Biagi Ravenni e Girardi - A quel punto ci sono stati diversi interventi sull’Inno a Roma e sull’inopportunità di eseguirlo, dato che era diventato, a posteriori, l’inno ufficiale del Movimento Sociale. Si sono espressi in questo senso il sindaco Bonfanti, l’assessora Mei delegata da Del Ghingaro, Paolo Benedetti delegato da Menesini". E anche questo non era più un mistero. "Girardi è intervenuto mettendo in rilievo la definizione scritta da Puccini su questa composizione "una bella porcheria" - continuano - basterebbe questo per non eseguirlo. Biagi Ravenni non è intervenuta. Non possiamo essere più precisi perché il verbale di quella riunione non è stato ancora inviato né pubblicato. Dunque: chi ha riferito alla direttrice Venezi questa ricostruzione dei fatti? Gabriella Biagi Ravenni non nega di aver espresso la sua opinione a qualche membro del Comitato in conversazioni private. Per quanto ci riguarda, anche come soci fondatori del Centro studi Giacomo Puccini, crediamo di aver sempre agito, proprio come scrive Venezi per “tutelare, preservare e curare l’eredità musicale di Puccini“".
A questo punto i due accademici entrano nel merito del brano e della sua storia, che probabilmente non sarà nota a molti.
"L’Inno a Roma è una delle pochissime sue composizioni scritte su commissione - spiegano - Era arrivata all’inizio del 1919, dal sindaco di Roma Prospero Colonna. Puccini accetta, ed è abbastanza strano, considerando quanto lui fosse lontano dall’entusiasmo nazionalistico e da ogni tipo di retorica e quanto la guerra lo avesse fatto soffrire. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo che il sindaco Colonna voleva farlo musicare a Mascagni! Il disagio nella composizione si manifesta presto: Puccini rifiuta nettamente la prima versione del testo di Fausto Salvadori, che invia una seconda versione. Puccini quindi procede nella composizione anche se le richieste del sindaco Colonna – per la prima esecuzione si pensava ad una massa di voci bianche all’aperto, per la seconda a un coro quasi professionale in teatro – lo mettono in difficoltà per l’estensione delle voci. Scrive al suo amico lucchese Guido Vandini il 24 marzo 1919: “Sto impazzendo a fare l’inno a Roma!“. Due giorni dopo aveva finito, come si ricava da una lettera a Elvira: “Ho finito l’Inno a Roma (una bella porcheria), domani viene Sadun a copiarlo in bella e lo manderò. Sarà quel che sarà“.
E quello che poi è stato si è visto. Ma forse Puccini, come concludono Biagi Ravenni e Gerardi, "non poteva immaginare l’uso che ne sarebbe stato fatto in seguito". Così come non poteva immaginare che sarebbe stato l’ennesimo motivo, o strumento, di discordia all’interno di un comitato in suo onore.
Teresa Scarcella