PAOLO PACINI
Cronaca

"Un osservatorio indipendente contro le bufale sui social"

L'esperto Quattrociocchi: "La gente vuole crederci, le smentite servono solo a polarizzare le opinioni"

Walter Quattrociocchi

Lucca 21 dicembre 2016 - È uno dei temi di scottante attualità, almeno da quando la vittoria della Brexit e quella di Donald Trump hanno sorpreso e scosso dal torpore gli analisti politici, facendo loro scoprire che, grazie al potere dei social, in una mole di informazioni praticamente infinita, paradossalmente dilaga soprattutto la disinformazione. Un problema serio anche per gli addetti ai lavori. Ma capirne i meccanismi sociali è fondamentale per non affrontare la questione in modo semplicistico, come una battaglia (vana) del bene contro il male. Ne è convinto Walter Quattrociocchi, 36 anni, romano, ricercatore universitario e coordinatore del Laboratorio di computational social science della Scuola Imt di Lucca, autore con Antonella Vicini di ‘Misinformation: guida alla società dell’informazione e della credulità’. Un’analisi scientifica condotta sui flussi di notizie attraverso 55 milioni di utenti Facebook. Con risultati anche sorprendenti.

Quattrociocchi, come funzionano oggi i social?

«Funzionano come stanze separate dove ognuno ascolta solo l’eco delle proprie opinioni. Sul web trovo una mole infinita di informazioni e io alla fine scelgo la narrazione che più si accorda alla mia visione del mondo, secondo il cosiddetto confirmation bias. Di fronte a un’idea diversa dalla sua, ognuno si arrocca sulla propria opinione».

Quindi ha poco senso smentire le bufale dilaganti? Lei l’ha sostenuto anche in un recente convegno alla Camera dei deputati...

«Le bufale? Inutile smentirle: anzi, chi ci vuole credere si radicalizza ancora di più. Su questo la penso diversamente dai vari debunker, gli ‘sbufalatori’. Infatti i dati dimostrano che pure in presenza di smentite documentate, che so, sulle scie chimiche, i grandi numeri restano gli stessi. Anzi si assiste a una polarizzazione delle opinioni preconcette».

E il nuovo sistema di Facebook anti-bufale?

«Beh, vedremo. Rischia di essere un po’ grottesco... Personalmente sono per uno Stato di diritto. La caccia alle streghe è sbagliata e poco efficace. Nessuno è immune da errori, ognuno sceglie».

Ma la polarizzazione che si crea sui social è un problema enorme.

«Certo. Si crea un’informazione strumentale, dove il meccanismo dei like inquina tutto. Ma attenzione, l’informazione strumentale è strutturata ad hoc, sia a favore dell’istituzione, sia in senso antagonista. È saltato proprio tutto il sistema informativo: un vaso di Pandora. Il bassissimo livello di intermediazione nell’accesso alle informazioni facilita lo sviluppo di fenomeni virali. Taggare le notizie sul web come autentiche o meno non risolve il problema, la questione è molto più complessa: come si fa a suddividere il mondo tra vero e falso? Non funziona».

E quale soluzione può esserci?

«In primo luogo non bisogna scambiare la causa per l’effetto. La gente si sfoga sui social perché esprime un disagio. È per questo che passano facilmente le informazioni fasulle. C’è una matrice quasi esclusivamente emotiva della comunicazione. Se tu gli dai un’informazione di Stato non risolvi nulla. Certo bisogna contrastare calunnie o razzismo, penalmente rilevanti. Il resto purtroppo non è possibile arginarlo. Anche la nuova strategia di Facebook è un palliativo, per recuperare un po’ di reputazione ora che nel dibattito europeo si sostiene che i social debbano essere soggetti a controlli».

Quindi controllati dallo Stato?

«No. I social hanno ormai un ruolo che va monitorato da una parte indipendente, terza e non governativa. Un osservatorio neutro, magari collocato a Ginevra. È un paradosso che i social intendano monitorarsi da soli. Il Santo Uffizio però non è una soluzione. Serve un lavoro mostruoso di sinergie, per adeguare il sistema informativo alla nuova realtà della “post-verità”».