ALFREDO MARCHETTI
Cronaca

«Come ho vinto la droga del gioco». L’odissea di uno schiavo delle slot

Luca, 35 anni, è arrivato vicino al suicidio ma è stato salvato da una delle associazioni che curano chi soffre di ludopatia

Ragazze davanti alle slot machine (foto di repertorio)

Carrara, 14 febbraio 2016 - «AVEVO perso il mio bimbo, mia moglie e un sacco di soldi. Il gioco era diventato la mia droga, di cui non sapevo fare a meno. Ho anche pensato di farla finita». A raccontare questa testimonianza è Luca, 35 anni, marito e padre di un bimbo di 2 anni, seguito da Ogap, l’associazione diretta da Maria Paola Freschi, dove ha seguito una terapia di gruppo che gli ha salvato la vita (40 persone in cura).

Il 35enne racconta uno scorcio della sua esperienza con una dipendenza maledetta: la ludopatia. Una testimonianza caratterizzata da affetti persi, migliaia di euro gettati al vento, giornate incatenate a una slot machine. E anche l’idea di farla finita, per scappare da tutti i problemi. «Maledetta slot-machine anche oggi ho perso, ma domani sono sicuro che mi riprendo tutti i soldi e anche di più. Quante volte ho detto questa frase? Ho perso il conto. Quante volte ho parlato con la slot come fosse una persona dicendo ‘dai pagami lo so che adesso paghi me lo sento!’ oppure ‘tra poco devi darmi il bonus lo sento, lo sento’. Era diventata un’amica, perché in quel momento mi faceva stare bene. Non avevo pensieri, i problemi non esistevano più, ero in pace con me stesso».

«ERO così preso dal gioco – prosegue – che con la mano premevo il pulsante il più velocemente possibile, non volevo perdere tempo, non potevo aspettare, per far girare i rulli della slot-machine e vedere se vincevo. Mentre facevo questo gesto maledetto, ripetevo dentro me stesso: “Non ho tempo da perdere muoviti”, non mi ero ancora reso conto che non solo perdevo tempo, ma perdevo anche la cognizione del tempo stesso. Perdevo autostima, perdevo soldi, perdevo i sentimenti e la cosa più importante stavo perdendo la vita. Ormai era diventata un’abitudine come bere, mangiare, lavarsi, era come una droga. Era l’unica cosa che contava e non m’importava se dopo stavo male, dovevo farlo perché ormai al mio cervello, al mio cuore, serviva quella dose quasi quotidiana di immagini, suoni, luci e colori che non potevo sopperire con nient’altro. Nemmeno con l’amore per mio figlio e per mia moglie». Una vita fatta di bugie, per coprire quello che faceva di nascosto, fino a quando i genitori hanno ricevuto l’estratto conto della banca: «Hanno visto il disastro che ho combinato. Il gioco ha allontanato dal mio cuore, dalle mie braccia mia moglie e mio figlio di 2 anni».

La decisione di chiedere aiuto: «Un bel giorno d’estate, mi ritrovo seduto su una sedia, in uno studio medico, a parlare con uno psichiatra. Lo ringrazierò per sempre, mi ha salvato la vita. Volevo uccidermi. Lui mi ha aiutato a combattere. Così come Paola Freschi e il suo gruppo d’ascolto: persone umane e insostituibili, con loro sto uscendo da questo tunnel e sono oggi migliore».