di Claudio Laudanna
La resa del 30 per cento per le cave apuane "appare ragionevole". Sono bastate queste due parole al Tar di Firenze per respingere il ricorso presentato da 29 aziende carraresi e massesi che chiedevano l’annullamento del piano regionale cave e, in particolare, la previsione in esso contenuta con la quale viene fissata in poco meno di un terzo dell’escavato la quantità di marmo cavato da destinare esclusivamente alla trasformazione in blocchi, lastre ed affini per ottenere una nuova autorizzazione. Si tratta di un nodo rispetto al quale le imprese del lapideo hanno, fin dalla sua introduzione, hanno dimostrato forti mal di pancia decidendo di passare alle vie legali, come per molti altri provvedimenti presi tanto da Firenze quanto dai Comuni in materia di marmo negli ultimi anni.
Diversi gli aspetti contestati in questa soglia, ritenuta da molti troppo penalizzante per le aziende apuane che subirebbero, tra l’altro, un diverso trattamento rispetto a quelle del resto della Regione. "I quantitativi minimi di resa per la coltivazione del marmo nella misura del 30 per cento del volume commercializzabile è previsto solo per il distretto apuoversiliese – spiegano i legali delle aziende –, mentre nella restante parte della Toscana tale misura è fissata nel 25% ed è salva la possibilità per i Comuni di stabilire anche percentuali comprese tra il 20 e il 25%. La differenza dei limiti minimi tra il comparto apuano e il resto della Toscana concretizzerebbe inoltre una discriminazione priva di fondamento geologico e tecnico".
A questo si aggiunga che, sempre secondo le imprese che hanno fatto ricorso: "le analisi del quadro conoscitivo del piano sconfesserebbero l’obiettivo della resa minima al 30% per il distretto apuoversiliese, dove la storia dell’escavazione sarebbe caratterizzata da una resa inferiore a questa soglia". Obiezioni che non hanno convinto i giudici fiorentini arrivati a decidere di respingere in toto il ricorso.
"La resa minima – sottolineano anzitutto i giudici del tribunale amministrativo – è rappresentata dal solo materiale commercializzabile con esclusione dei materiali destinati ad altri fini e, in particolare, al miglioramento della sicurezza delle condizioni di lavoro nelle cave e dei materiali qualificabili come rifiuti di estrazione. In questi termini l’individuazione della resa minima delle Apuane nella misura del 30% appare scelta adeguata rispetto all’obiettivo di garantire la tutela del patrimonio naturalistico nella zona, e non comporta un sacrificio eccessivo dell’interesse connesso allo sfruttamento economico del materiale lapideo. Quest’ultimo e quello alla tutela del territorio e del paesaggio sono interessi tra loro contrapposti e il punto di equilibrio individuato appare ragionevole".
Una considerazione a supporto della quale il tribunale amministrativo porta anche dei numeri ben precisi. "La resa minima pari al 30% del solo volume commercializzabile – sottolineano i giudici – è peraltro riducibile in sede di pianificazione comunale attuativa di bacino fino al 25% e non è obiettivo insostenibile. Tanto più che la percentuale delle volumetrie residue già autorizzate per i materiali ad uso ornamentale corrisponde, al 30,28% dell’intera volumetria autorizzata".