
Tradizioni Quando ci curavano erbe e animali
di Natalino Benacci
Guarire dalla broncopolmonite con la pelle di un coniglio. Se lo raccontate a un medico gli si rizzeranno i capelli. Ma la “ricetta” appartiene all’anedottica popolare: si racconta che a Guinadi, negli anni Quaranta un bambino affetto da broncopolmonite nonostante le cure del medico fosse giunto in punto di morte. I genitori allora decisero di ricorrere ad un rimedio arcaico di cui ancora si favoleggiava in paese. Ammazzarono un coniglio, lo scuoiarono e avvolsero il corpo del bambino nella pelle ancora calda dell’animale. Il mattino seguente la crisi era passata e poi arrivò la guarigione. Fantasie popolari? Forse. Ma sono molti i rimedi alternativi della medicina tradizionale contadina che si affidavano alle proprietà terapeutiche degli animali. A Vignola, nel comune di Pontremoli, curavano l’itterizia facendo ingerire al malato pidocchi vivi con acqua. Sempre lì, per guarire l’ulcera facevano ingoiare una lumaca viva dopo averle tolto il guscio: l’escrezione dell’animale andava a cicatrizzare la lesione interna. Ovviamente si parla di pratiche curative tradizionali del territorio lunigianese sono rimaste nelle memoria di poche persone e che interessano oggi solo dal punto di vista etnografico e del colore popolare.
Nelle campagne del territorio pontremolese la cosiddetta “tosse cattiva” era curata facendo bere ai bambini la brodaglia con cui si nutrivano i suini. Per la sciatica si tritavano i “felson”, le felci alte, si aggiungeva aceto e il preparato si applicava alla parte dolente con una fasciatura stretta. La sinovite veniva guarita con un’erba chiamata in dialetto pontremolese “spigaréla”: se ne pestava una manciata, si aggiungevano un cucchiaio di aceto, un pugno di farina con crusca, una chiara d’uovo, un po’ di caligine e una punta d’olio. Si mescolava bene e poi si collocava sulla parte malata con sette pezze di canapa.
L’"altra medicina" vantava in Lunigiana una grande tradizione che utilizzava diffusamente rimedi naturali. Con aglio, ortica, sambuco e malva, ad esempio si curavano molte patologie. L’aglio era considerato formidabile per le sue proprietà: si usava per far cadere i calli, due spicchi al giorno per abbassare la pressione, sfregato sopra la cute si pensava facesse rinascere i capelli. Altre terapie. Per curare il raffreddore bastava immergere nell’acqua bollente 5 foglie di alloro aggiungere un po’ di miele e bere al momento opportuno. Sempre con le bacche di alloro e con l’olio di oliva si preparava un ottimo unguento per il dolori reumatici, che si curavano anche con l’artiglio del diavolo, una pianta definita il “cortisone dei poveri”.
Anche Riccardo Boggi, autore del libro sempre ricercatissimo “Magia, religione e classi subalterne in Lunigiana”, studiando le culture popolari ha imparato molte terapie tradizionali e sono ancora in tanti a chiedergli scherzosamente pareri. Ma quando ha bisogno di “interventi” più drastici ricorre con discrezione ad una guaritrice di Bagnone che, a suo dire, avrebbe grandi capacità pranoterapeutiche per calmare i dolori articolari e dell’apparato scheletrico. C’erano anche “specialisti alternativi” che curavano con metodi che sconfinavano nelle antiche pratiche della magia. Il fuoco di sant’Antonio, ad esempio, veniva combattuto con un rituale, la segnatura, che imponeva la recitazione di una formula. Il punto di riferimento era comunque il “medgon”, che non chiedeva denaro, ma accettava solo donazioni. Il rito della guarigione doveva avvenire in segreto e il guaritore non poteva divulgare formule magiche se non quando decideva di lasciarle in eredità, in genere ad un nipote, alla mezzanotte della vigilia di Natale.
Foto storica di una guaritrice da Quilianonline