Agosto ‘44: la strage della Romagna. Per non dimenticare le 69 vittime

Livia Gereschi, insegnante pisana di 34 anni, e gli altri trucidati dai nazi-fascisti l’11 agosto di 80 anni fa

Agosto ‘44: la strage della Romagna. Per non dimenticare le 69 vittime

Il sindaco di San Giuliano. Matteo Cecchelli davanti al cippo che ricorda le 69 vittime

La diffusa presenza di sfollati nell’area del monte pisano, da Ripafratta alla Verruca, e una forte presenza di partigiani che avevano reso sempre più difficile la movimentazione dei mezzi tedeschi lungo la strada pedemontana portarono i comandi di occupazione a un massiccio rastrellamento di civili che avvenne nella notte fra il 6 e il 7 agosto 1944. L’operazione era stata preceduta il 31 luglio da un bando, ovviamente disatteso, nel quale si invitavano gli uomini dai 16 ai 50 a presentarsi al comando tedesco. Di fronte alla folla di civili raggruppata alla Romagna fu chiesto notizie sulle formazioni partigiane. La risposta venne da Livia Gereschi, un’insegnante pisana di 34 anni che aveva svolto servizio come interprete: quelle persone erano sul monte soloo per proteggersi dai bombardamenti e nessuno di loro era partigiano o aveva contatti con loro. Alle prime luci dell’alba del 7 agosto i tedeschi lasciarono La Romagna: dopo aver liberato donne e bambini, portarono via 300 uomini oltre alla stessa Gereschi. I prigionieri furono condotti a Ripafratta, dove li divisero in due gruppi: chi poteva lavorare fu caricato sui camion e inviato a Lucca per essere smistato verso i centri di lavoro dell’organizzazione Todt a costruire bunker o trincee sulla ‘linea gotica’; i “non abili”, o sedicenti tali, furono destinati a Nozzano, sede del comando tattico tedesco e del centro raccolta prigionieri della 16ma SS-Panzergrenadier-Division "Reichsführer". La Gereschi fu aggregata come interprete al gruppo. Dopo quattro giorni di prigionia e di interrogatori, la mattina di venerdì 11 agosto venne annunciata una visita medica: i prigionieri dichiaratisi disabili al lavoro sarebbero stati trasportati, quattro alla volta, alla sede dell’ufficiale medico. Il modo scelto per l’esecuzione fu semplice: i prigionieri, divisi in piccoli gruppi, fucilati in località lontane pochi chilometri da Nozzano, fra Quiesa a Massarosa. Tra gli ultimi undici anche Livia Gereschi. Il massacro ebbe un superstite, Oscar Grassini, trentottenne messo comunale a San Giuliano. Ferito a un orecchio e sanguinante sul volto si finse morto e tale lo credettero i tedeschi. Rientrato dopo mille peripezie alla propria abitazione, Grassini, negli anni che seguirono, poté ricostruire nei minimi particolari le durissime condizioni della prigionia a Nozzano e le modalità che portarono alla fucilazione di tutti i 69 prigionieri dichiaratisi inabili al lavoro. Quindici di loro risultarono residenti a Pisa, di nove non si conobbero mai le generalità.

Renzo Castelli