Pisa, 9 giugno 2018 - Un dolore infinito che ha attraversato gli anni ed è arrivato fino nell’auletta che di solito ospita il gip a Pisa. Ma in cui ieri si è conclusa almeno una prima fase di una vicenda giudiziaria tristissima, il pubblico ministero valuterà se fare ricorso in appello. Il giudice Pietro Murano, che si è preso 90 giorni per le motivazioni, ha condannato a due anni (con la condizionale, sono state riconosciute le attenuanti generiche) le due operatrici che erano presenti quel giorno di agosto 2013 in cui Rachele Medda, 5 anni, morì per annegamento (l’autopsia aveva escluso malori) mentre si trovava alla piscina comunale di Barbaricina per i campi estivi. C’erano anche loro, ieri mattina, in aula, Elena Bini, 28 anni e Debora Ramalli, 48, entrambe residenti a Pisa. In lacrime come gran parte della platea nel rivivere quei lunghi momenti di panico, quando la piccola fu scoperta a fondo vasca, e di disperazione, quando si capì che il quadro era già compromesso. Hanno parlato le due donne, difese dagli avvocati Anna Francini e Andrea Di Giuliomaria. «Non mi sono accorta che Rachele fosse entrata in acqua. E’ passata alle mie spalle. Se qualcuno me l’avesse detto non glielo avrei permesso. Se ci fosse stato il bagnino dall’alto avrebbe visto. Non ci sono parole mi scuso tanto, è un dolore immenso», si è sfogata Ramalli. «Sono diventata madre da poco e posso immaginare che cosa stia passando la famiglia». Sul caso: «Non vedevo, avevo il riflesso del sole negli occhi. Ho visto Rachele solo quando era in braccio alla mia collega» e ormai non c’era più nulla da fare.
«NON SIAMO qui per valutare le persone, questo è un processo penale – ha ricostruito il vice procuratore onorario Massimiliano Costabile – e dobbiamo quindi chiarire se ci sono responsabilità di tipo penale». «I genitori lo avevano detto al momento dell’iscrizione – ha aggiunto il pm – sia Rachele che il bimbo piccolo non sapevano nuotare, ma era stato garantito loro che sarebbero stati sorvegliati da due persone e avrebbero fatto soltanto giochi in acqua». Poi ha citato il video della tragedia «che testimonia che passarono 5 minuti e 40 prima che qualcuno, un bambino e non chi era addetto a vigilare, si accorgesse che Rachele era sott’acqua». Un fatto «inconcepibile» che ha portato a chiedere per tutte e due tre anni.
«SI’ – ha ammesso l’avvocato Di Giuliomaria – se la sono dimenticata, ma perché?», ha cercato di approfondire. «Erano in acqua, la musica era alta, stavano giocando. Rachele è uscita dalla parte bassa, ha fatto il giro da dietro ed è entrata alle spalle di Debora. Erano campi estivi, quelli, no corsi di nuoto. E la normativa prevede che per vasche superiori a 50 metri quadri ci debba essere un assistente bagnante all’esterno che quel giorno non c’era». «In realtà c’erano due soggetti con funzione di vigilanza», ha ribattuto il pm. Il legale Francini, chiedendo l’assoluzione o pena più mite di quanto chiesto dal pm, dato che la sua assistita (come l’altra) non ha precedenti e anche in virtù del risarcimento (dell’assicurazione della Canottieri Arno) già avvenuto sul piano civile, ha ricordato la «presenza di un muretto, ostacolo funzionale» e del sole che riducevano la visuale.
GIA’, perché la famiglia si era costituita parte civile. Ieri mattina era presente il papà di Rachele, lo psichiatra Pierpaolo Medda, in servizio all’Aoup che ha assistito a tutta la fase finale del processo in silenzio, sostenuto dal legale Carlo Porcaro D’Ambrosio. Mentre la mamma, Cristiana Manzi, originaria di Montecalvoli, libera professionista, non se l’è sentita di essere in aula. «Un dolore che si rinnova», ha spiegato il loro avvocato. Dopo la lettura della sentenza, un nuovo dramma per tutti. «Coraggio, adesso dovete andare avanti», hanno detto le persone nel pubblico alle due istruttrici. «Diteglielo voi, vi prego, che ci dispiace, alla famiglia», la risposta fra le lacrime.
antonia casini