REDAZIONE PISA

Lorenzo Gleijeses e i suoi spettacoli «vivi»

L’attore e performer intervistato dall'autrice pisana

Lorenzo Gleijeses

Pisa, 24 gennaio 2019 - Lorenzo Gleijeses, puro talento partenopeo dal respiro internazionale, performer oltre che attore, si racconta. Dalla ricerca di una propria identità attoriale ed autoriale, alla passione per la sperimentazione, dalla vittoria del “Premio UBU” nel 2006, al progetto 58° parallelo Nord ed alla partecipazione cinematografica ne “Il Primo Re”, di imminente uscita. A intervistarlo, l'autrice pisana Francesca Padula.

Calca i teatri da quando aveva 10 anni, è nato con la tradizione napoletana, ma in tutti questi è andato molto oltre, formandosi anche all’estero (Danimarca, Russia, Inghilterra…) con maestri internazionali. E’ sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo o è un modo di superare se stesso?

 

«Un po’ entrambe le cose, sia un modo per cercare qualcosa di nuovo che mi permetta di creare nuove capacità che possono essere incanalate a seconda delle situazioni, ma anche qualcosa con cui superarmi. Io penso che un attore più possibilità e più talenti ha nel superare ostacoli e diversi tipi di ostacoli e più potrà mettere in campo soluzioni varie quando gli saranno chieste. Ma d’altro canto, essendo io un “figlio d’arte”, ad un certo punto mi si è presentata la necessità se non l’obbligo, se volevo continuare a fare questo lavoro, di riuscire a crearmi quello che è un modo di lavorare mio, di essere attore con un mio modo personale e non una mera imitazione di quello che vedevo fare da mio padre. Spesso il problema dei figli d’arte è che sono talmente legati ed in balia, essendo quello il mondo dove hanno iniziato, del lavoro paterno che non se ne riescono ad allontanare, per legami affettivi, per scarsa visione prospettica, per scarsa lucidità o perché è più semplice vivere all’interno della compagnia del padre. Uno dei problemi che vedo dei figli d’arte è che crescono vedendo un solo modo di lavorare. Elaborando però un modo di stare in scena di un maestro che lo fa da venti, trenta anni, la tua sarà solo una copia slavata, sciapa, non essendo stato tu a costruirlo. Credo che sia importante per ogni attore avere un metodo un modo personale di calcare il palcoscenico, ancora di più per un figlio d’arte che deve sentirsi latore di un proprio modo di intendere il lavoro attoriale, di come stare in scena. E per me questa è l’unica cosa che mi ha permesso di fare l’attore autonomamente e poter andare tranquillo in scena. Prima mi sentivo molto soggetto ai giudizi. Più secondo me uno cresce con maestri dalla grande personalità, più poi si deve seguire la strada indicata ma allo stesso tempo, più devi mettere in campo l’elaborazione di una forte identità, altrimenti rimani schiacciato».

Leggendo la sua biografia, ricorre spesso la parola sperimentazione, che ha dichiarato essere applicabile anche ad un attore tradizionale. Quindi per lei vale a tutto tondo, avendo ricoperto più tipi di ruoli interpretativi. Fa dunque parte di lei…

«Sì, secondo me è un discorso più aperto. Ci sono attori tradizionali che sono degli sperimentatori. Per esempio Edoardo de Filippo, che ha lavorato all’interno di un teatro tradizionale, con un palcoscenico tradizionale all’italiana, a livello attoriale è stato un innovatore, uno sperimentatore sia a livello interpretativo che a quello drammaturgico. Io credo che tutti i grandi attori tradizionali possano essere comunque definiti degli sperimentatori, non ripetendo cliché uguali a sé, non interpretando tutti i personaggi alla stessa maniera. Sperimentare vuol dire continuare a ricercare sempre, anche a ottanta, novant’anni. Sperimentazione però è anche un’etichetta che è stata data ad un certo tipo di teatro. Per me in particolare è legata alla domanda di prima ed io ho unito cose apprese all’interno di un teatro tradizionale ad altre apprese in un altro tipo di teatro, quello di ricerca, nel lavoro fatto con danzatori o coreografi. Questo non vuol dire che posso interpretare Amleto facendogli ballare il tango, così gratuitamente, questi elementi vanno trattati con le pinze… Però all’interno dell’insegnamento del tango, preso come esempio, ci possono essere dei princìpi di equilibrio di cui io posso essere latore che io posso applicare al modo di dire il testo di Amleto. Io prendo delle idee che potrei anche ricavare dalla grafica, dal fumetto e poi applicarle nel campo teatrale. Creare degli equivalenti da portare nel lavoro fisico o vocale o nel movimento scenico, dinamismi, ritmi... Stiamo parlando di una tavolozza talmente ampia di sfumature di possibilità che se uno ricerca con criterio dei princìpi e poi ne ricrea degli equivalenti da portare nel proprio campo di pertinenza, tutto ci può stare. Uno dei miei maestri, Eugenio Barba, una volta parlando mi disse: “Se ti piace quella scena di “Taxi driver” imitala, imita De Niro. È soltanto una struttura per arrivare ad un’interpretazione, per arrivare a certe altezze: l’altezza è il livello di interpretazione che tu raggiungi, sotto il profilo della struttura tecnica che dai a una scena.” Si possono prendere quelle che sono delle indicazioni di lavoro anche da artisti che lavorano in campi totalmente diversi ed elaborarle come dei compiti tecnici, come delle partiture musicali, per trovarne così degli equivalenti nel proprio campo. Cose che siano delle scelte fatte con percorsi mentali ragionati. Se il tutto non è casuale posso prendere qualcosa anche dal cartone animato e portarla in scena».

Si è formato, tra gli altri, all’Odin Teatret e, come allievo di Julia Varley, ha creato lo spettacolo “Il figlio di Gertrude” con il quale ha ricevuto il “Premio Ubu 2006” come Nuovo Attore: era molto giovane. Cosa ha rappresentato per lei?

 

«Beh, sicuramente è stato un momento importante della mia vita perché è stato l’inizio di una nuova fase. Fino a quel momento ero impegnato nell’elaborazione di un mio modo di stare in scena, di coltivare e ricercare una mia identità. È stato un percorso complicato, come tutte le strade di formazione. Ho cercato dei maestri con cui lavorare insieme, e con cui ho avuto periodi lavorativi più o meno lunghi ma comunque intensi. In quanto figlio d’arte non mi sentivo abbastanza forte per poter andare in scena, ma sempre sotto esame e sotto osservazione. Sapevo che il pensiero di tutti era: “Lui è lì perché è stato messo sul palcoscenico dal padre.” E l’allontanarmi da questa condizione era necessario. È stato un periodo di ricerca e formazione durato oltre cinque anni. Sono andato a lavorare all’estero in posti dove non sapevano chi fosse mio padre e questo ha fatto crescere la mia sicurezza e mi ha permesso di diventare un attore che potesse calcare le scene senza chiedersi ogni secondo “Che stanno pensando di me?..“.

Ricevere quindi un premio importante come il “Premio Ubu” è stata una sublimazione di questo percorso. Sapere di aver vinto il premio più importante in Italia e uno dei più importanti in Europa ti fa capire che il percorso di costruzione intrapreso sta portando dei frutti. A me ha permesso un cambio di ottica, facendomi capire che la ricerca che stavo sviluppando e la mia identità artistica e drammaturgica e registica erano in una buona direzione. Mi ha dato molta fiducia. “Il figlio di Gertrude” ha rappresentato quindi una svolta, è stato un primo incontro con la possibilità concreta per me di considerare un percorso autoriale. Nei miei spettacoli sono attore, ma anche ideatore del progetto e a volte autore del testo come in “Gregorio Samsa”: il mio ruolo è sempre declinato in maniera diversa, quasi mai semplicemente un attore».

Chi viene a vederla in teatro è subito colpito dalla sua energia, dalla vitalità che porta sul palco. Mette la fisicità al centro della sua abilità interpretativa ed infatti è stato definito: prodigioso, stupefacente! Performer oltre che attore: come è avvenuto il passaggio a questo altro ruolo?

 

«Sì, in me c’è una grande componente fisica. Anche quando vengo scritturato come attore in progetti ufficiali e o tradizionali mi appoggio molto a quel tipo di lavoro. Porto sempre il mio know how. Credo che quello fisico sia un modo di esprimersi uguale se non superiore a quello della parola in alcuni momenti e penso che un attore debba saper usare entrambi. Non credo tanto agli attori che si trovano nel teatro ufficiale borghese, che hanno una dizione perfetta, che sanno parlare, magari hanno un’emissione vocale molto precisa ma non la stessa padronanza sul corpo. Io ho fatto l’inverso iniziando prima sul fisico che poi mi ha portato ad un lavoro di sperimentazione sulla parola. È come se alla parola io ci arrivi tramite il corpo. Questo tipo di approccio è nato con l’incontro con i miei primi maestri, con Lindsay Kemp, per esempio, che quando avevo 18 anni mi diceva sempre: “Fai qualsiasi cosa, ma muoviti, muovi il tuo corpo”. E dopo quasi venti anni di percorso da solo e con altri maestri capisco ora cosa volesse dire: muoversi anche senza un apparente finalità iniziale ti porta a conoscerti meglio, ad acquisire la padronanza della mobilità dello “strumento” corpo. E la spinta verso questa direzione, questo modo di intendere il lavoro me l’ha dato poi Julia Varley all’Odin Teatret: ho iniziato applicarlo con lei quotidianamente nei tre anni e mezzo di prove che ci hanno portato a “Il figlio di Gertrude”. Ed oltre a creare quello spettacolo, nel prepararlo, mi sono formato anche come persona e ora ho il bisogno fisico di scaricare endorfine e sono quasi troppo dipendente dal lavoro fisico, tanto che quando non mi ci dedico quasi non riesco a mettere a fuoco le cose e a ragionare bene. È diventato parte di me. A livello di concezione attoriale il lavoro e lo sforzo fisico ritengo siano centrale, anche perché ora fanno parte della mia quotidianità, di me. Quando non sono in scena o non faccio spettacoli così fisici, devo scaricarmi in altro modo: se manca ne sento il bisogno. E anche inconsciamente spingo i miei spettacoli verso una parte fisica più prestante. Questa però è anche una trappola e si rischia di appiattirsi sul lavoro fisico, solo per una propria esigenza. Bisogna essere capaci di calcolare le proprie necessità in un certo momento del proprio percorso artistico e capire cosa è giusto fare e non soltanto considerare di che cosa ha bisogno il tuo corpo».

Del 2016 è l’ideazione del suo progetto 58° parallelo Nord. Lo ha presentato al Napoli Teatro Festival ed è definito un “Cantiere teatrale aperto”. Come è nata l’idea?

 

«L’idea è nata perché volevo provare a lavorare con una serie di maestri in un progetto che non fosse finalizzato per forza alla creazione di uno spettacolo. Ho raggruppato Eugenio Barba, Luigi De Angelis, Michele Di Stefano che hanno delle estetiche, dei modi di lavorare molto diversi: uno è registra teatrale nato nel ’30, uno nel ’75 e uno un coreografo. Ci sono differenza anagrafiche, di stili, di tipi di teatro e il minimo comune denominatore era la stima, l’ammirazione per la cifra stilistica del loro lavoro e dei materiali performativi che erano in grado di creare: un’assoluta fascinazione. Però sapevo che sarebbe stato difficilissimo metterli insieme in uno spettacolo perché hanno visioni totalmente diverse. Io ho portato diversi materiali creati con il musicista Mirto Baliani, al coreografo Di Stefano, che ha iniziato a lavorarli. Lui ha creato movimenti che ho portato a Barba, che però mi ha detto: “Non mi danno nessuna associazione, se non quella di un insetto…” però poi ha aggiunto: “Perché non lavoriamo su questi movimenti dell’insetto su Gregorio Samsa, con “La Metamorfosi” di Kafka?” ed ha iniziato a sviluppare a fianco di quei movimenti un’idea di testo da portare in scena. Questo poi ci ha portato ad immaginare una struttura possibile di spettacolo lavorata negli anni che è diventata “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”.

Quando ho cominciato a mettere su queste azioni danzate e riportato il materiale a Di Stefano, lui mi ha detto: “Questo non è il tipo di lavoro che voglio fare, non mi interessa mettere il testo di Kafka su questa cosa. Se tu vuoi continuare a lavorare con me tieni da parte il filone sviluppato con Barba.”.

E quindi si è presentata la possibilità di dividere il progetto in due filoni diversi e sviluppandoli abbiamo raggiunto l’accordo, con tutti gli artisti del cantiere teatrale aperto, che potevano nascere due spettacoli distinti e separati e così è stato: da un parte è nato il primo con regia di Eugenio Barba, Julia Varley e mia, e con mia drammaturgia e dall’altra “Corcovado”, che sarà con la regia di Michele Di Stefano degli MK e Luigi De Angelis di Fanny & Alexander, e con me come interprete.

Quindi questo cantiere era nato non come progetto finalizzato per forza alla creazione di uno spettacolo, ma come un lavoro di sperimentazione con altri artisti nel quale si potesse arrivare ad una creazione comune con successivi passaggi di mano e alla fine non si sarebbe dovuto più capire dove finiva l’opera di un maestro e cominciava quella di un altro. La mia aspirazione era di far diventare talmente unite e legate le parti da rendere imponderabile il limite tra l’una e l’altra, ma poi è diventato il contrario perché non le strade non erano conciliabili.

Questo mi piace: avere progetti vivi che decidono per te! È la differenza tra teatro ufficiale e quello di ricerca. Esso tratta gli spettacoli come organismi vivi che “comunicano” agli artisti che direzione dargli. Non sei tu che decidi tutto: questa è una cosa più tipica da incontrare all’interno del teatro tradizionale borghese.

Il primo lavoro Una giornata qualunque del Danzatore Gregorio Samsa è stato presentato in anteprima il 6 dicembre al Teatro Studio di Scandicci ed ha debuttato il 15 di questo mese a Torino. Quali saranno le prossime tappe e chi è questo danzatore?

 

«A gennaio saremo anche fino al 27 alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano e il 29 a Bologna. Gregorio Samsa è il danzatore omonimo della metamorfosi ed appartiene ai nostri giorni, è un nostro contemporaneo. Un personaggio di fiction, da noi inventato nel processo di scrittura scenica. Un danzatore che rimane ingabbiato nei suoi materiale performativi. È sotto debutto, a due giorni dall’andare in scena, e lo troviamo impegnato in una serie di attività della sua quotidianità: parlare al telefono con la fidanzata, prepararsi da mangiare, discutere con la sua psicologa, scrivere dei testi. Qualsiasi cosa lui faccia, ripete più o meno inconsciamente le partiture dello spettacolo, per poterle ricordare per il debutto. È un lavoro sul confine che c’è tra la ricerca che un attore o danzatore fa per migliorarsi e una pulsione patologica di una persona ossessionata dal lavoro che ha il panico di dimenticare e di non aver lavorato abbastanza per dare il meglio. È un lavoro su questo: dove è il limite tra una sana voglia di lavorare su di sé e la pulsione patologica?

Questa sua totale dedizione alla riuscita della performance lavorativa è in contrasto con la sua vita al di fuori del palcoscenico. Lui è come sdoppiato, quindi…

In realtà non è in contrasto ma è che lui si butta talmente in profondità nel lavoro che è come se lasciasse i resti, le briciole per la vita privata e questo non sta bene alle persone che gli stanno intorno: la sua donna, il padre, la famiglia. Loro gli fanno percepire questo, scrivendogli, parlandogli, per fargli capire che proiettarsi e dedicarsi totalmente alla ricerca della perfezione del proprio lavoro, lo rende sì affascinante e bello come persona, ma non ci può essere solo quello. La vita diventa ricca sotto l’aspetto della produzione, del profilo della creazione artistica, ma arida sotto tutti gli altri.

Ricordo che lavorando con Yoshi Oida (attore giapponese che ha lavorato con Peter Brooke ndr.), lui mi disse: “Un attore deve vivere la vita, altrimenti come può raccontare le emozioni se non le ha vissute?”

Il lavoro su Gregorio è questo: lui mette il duecento per cento di sé nel lavoro e rischia di rendere arido il contorno: così è difficile portare una nascita rigogliosa in una creazione se al proprio interno si è privi di acqua».

Lui è come prigioniero della sua ricerca di perfezione. Quanto c’è di lei in lui?

«Non è un caso che il personaggio sia così. Io sono così. In effetti questo è un lavoro che parla molto di me. Anche io non riesco a capire il limite di cui ho parlato prima, di una ripetizione ossessiva che può essere infruttuosa. È un lavoro sulla ricerca dell’equilibrio che io non sono riuscito a trovare, come Gregorio. C’è tanto di me e non per caso.

Vuole anticiparmi adesso qualcosa di “Corcovado”, il secondo filone nato dal tuo progetto 58° parallelo Nord?

 

«Questo secondo spettacolo verte più sulla performance, ha una presenza di testo minore e si avvicina di più alla danza. Al momento non è uno spettacolo finito. Posso parlarti ad oggi soltanto dell’impianto scenografico. Si sviluppa su un tapirulan di 8 metri su cui io danzo e che mi porta avanti e indietro nello spazio scenico. È una performance sul viaggio, sullo spostarsi, sul muoversi ed io sono un esecutore di una partitura danzata.

Non essendo ancora entrato nel vivo, però per me è ancora difficile parlarne in modo approfondito. Posso dirti però che inizierò le prove a febbraio».

Credo fermamente nell’effetto catartico di ogni forma d’arte, sia per chi la crea che per chi ne fruisce. Per alcuni può essere qualcosa di momentaneo, puntiforme all’interno dell’esistenza, per altri un bisogno continuo di liberare emozioni, che altrimenti esploderebbero dentro di sé. Lei cosa ne pensa?

«Sono d’accordo con quello che tu dici e credo che l’espressione artistica sia qualcosa di molto importante per chi la fa e la fruisce. Chi la fa ha una connessione all’espressione artistica più quotidiana e quindi è più probabile che chi lo fa per lavoro ne possa diventare dipendente. Può accadere anche per chi ne fruisce, più raramente, ma sicuramente accade per l’artista. Ci sono state grandi opere in letteratura e cinema e teatro che parlano di questo o dell’impossibilità di vivere senza espressione artistica, come il film “Viale del tramonto” di Billy Wilder o anche l’opera di Anton Cechov “Il canto del cigno”».

Nella sua già lunga biografia appaiono anche partecipazioni cinematografiche in lavori di alto livello. L’ultimo uscirà a fine gennaio ed è “Il primo re”. Mi parla del film e del suo ruolo?

 

«La principale mia attività è il teatro, ma quando mi vengono proposti progetti cinematografici importanti, naturalmente, non rifiuto e li cavalco con gioia. “Il primo re” è uno di questi: è sulla storia di Romolo e Remo ripresa soprattutto da quelli che sono gli scritti di Tito Livio (ci sono molti versioni del mito di Romolo e Remo). È un film ambientato quindi nell’VIII sec. a.C. e recitato in un proto latino inventato da un team di semiologi de La Sapienza insieme al regista ed agli sceneggiatori. Inventato perché nell’VIII sec. il latino non era una lingua scritta, mancano testimonianze, documenti scritti. Primo aspetto di grande interesse è proprio questo, il fatto che noi abbiamo recitato in questa lingua “inventata” ed il film sarà sottotitolato. Noi attori abbiamo fatto un grande lavoro di preparazione con degli stuntman per due mesi, perché è un film dove ci sono molti duelli, battaglie con armi vere, cavalli.

Io ho anche imparato a fare l’arciere. Il mio ruolo è quello di Purtnass, un cacciatore che colpisce le prede con il suo arco. Fa parte della banda di Romolo e Remo e quando loro organizzano un’evasione dal campo in cui erano stati imprigionati, ad Alba (civiltà preromana, distrutta dai protoromani), io insegno al resto del gruppo come cacciare ed orientarsi dopo la fuga da questo campo dove eravamo schiavi. Sembra un film hollywoodiano, sia per gli effetti creati che per il lavoro con gli stuntman e anche perché gli attori hanno fatto un lavoro fisico importante senza farsi sostituire da loro, cosa più tipica dei film americani. Il film molto atteso: il regista è Matteo Rovere e Remo è interpretato da Alessandro Borghi. Ci sono poi tantissimi altri attori di rilievo e non vedo l’ora di guardarlo anche io».