
SEMINASCOSTA La facciata della Pieve di Santa Giulia a Caprona. A destra, la navata centrale
Vicopisano, 9 gennaio 2017 - In quella sorta di museo diffuso e a cielo aperto in cui (attorno alle perle ‘maggiori’, dal capoluogo a San Miniato, da Volterra alle altre) si struttura il patrimonio storico-artistico della provincia di Pisa, la pieve di Santa Giulia a Caprona, nel comune di Vicopisano, rappresenta un gioiellino da avvicinare e respirare con calma. Sì, da respirare, perché il suo fascino è, anche (forse soprattutto), esercitato dall’atmosfera che avvolge l’edificio. Quella di una collocazione che – paradosso solo apparente – è, contemporaneamente, a un passo da Pisa stessa epperò nascosto, quasi: un po’ per l’effettiva posizione (al riparo di alberi); un po’ perché è la maledetta velocità, madre di tutte le distrazioni, che ci rende miopi all’accorgersi di lei. Basterebbe infatti un minimo di attenzione in più nel guardarsi attorno, per scorgerne le sagome attraverso le frasche di quei tronchi.
Sagome antiche, quelle della pieve; attestata fin dal 1096. Forme che aggiungono, alla suggestione appena evocata, il fascino di una bellezza scarna, priva di ambiziosità estetiche, tanto da contenere il proprio ’look e entro i limiti dell’estrema essenzialità, attingendo la sostanza dello spirito più disadorno. E ciò nonostante l’aspetto presente sia il risultato di susseguenti e molteplici fasi molteplici fasi costruttive, che ne hanno scandito la storia del sito, dalla costruzione a oggi. Malgrado la lunga sequenza d’interventi, l’aspetto del tempio conserva, intatto, il temperamento severo del romanico caratterizzante il «cuore cronologico» del medioevo. La pianta è a croce latina; la navata (unica, adesso, in luogo delle due originarie) provvista soffitto a capriate lignee e di abside, quest’ultima addossata a un campanile laterale di base rettangolare (del XII o XIII secolo); la facciata è disegnata a capanna e movimentata unicamente da poche soluzioni grafiche: una serie di mensole (a sorreggere idealmente gli spioventi del tetto) e di archetti pensili (una fila lunga tutta la larghezza del prospetto, a chiudere inferiormente il timpano), due finestrelle rotonde (gli ‘oculi’) al di sotto degli archetti appena citati, oltre a un portale semplice semplice: definito superiormente da un architrave in materiale di recupero e da un arco cieco (a tutto sesto, chiaramente).
Quanto al materiale edilizio, si tratta di pietra: conci di arenaria, in specie, e bozze di ‘verrucano’ (genere lapideo che deriva il proprio nome dal vicino Monte della Verruca); elementi di ruvida solidità, sovrapposti senza quasi stendere malta, che conferiscono all’insieme un profilo di austero rigore, di lontananza antipodica da qualsiasi, velleitario svolazzo. Lo stesso ‘sentimento’ che s’immagina ispirare le proporzioni del complesso: modeste, raccolte, chiuse quasi a braccia conserte (l’interno spoglio, a esaltare l’altare maggiore con mensa del 1152 e, di notevoli dimensioni, il fonte battesimale ottagonale in pietra monolitica, a sua volta del XII secolo); come in posizione di concentrata, serena meditazione.
Eppure la sua fisionomia non è tutta e soltanto dettata da una volontà di contenimento formale: il lato meridionale, ad esempio, presenta una parete con cornicione sommitale, su archetti appoggiati (anche qui) a mensole, gli uni e le altre recanti sculture improntate a motivi animali, vegetali e antropomorfi; e la medesima parete, in basso, contiene colonne murate i cui capitelli consegnano all’osservatore enigmatici volti maschili e femminili: secondo un’interpretazione, raffigurazioni di coloro che finanziarono i lavori di ampliamento avviati (e mai conclusi, conformemente al progetto iniziale) nel XII secolo.