"Il trapianto di organi da vivente è una necessità sociale". Sono le parole di Ugo Boggi, chirurgo di fama internazionale e direttore dell’Unità operativa di Chirurgia generale e trapianti dell’Aoup di Pisa. Di recente, il professor Boggi ha condotto un intervento su Leonardo Baruzzo, un giovane di 20 anni affetto da insufficienza renale cronica. Baruzzo si era precedentemente raccontato sulle nostre pagine prima di ricevere un rene donato dal padre, Cristian, proprio nel giorno della Festa del Papà.
Professore, com’è andato l’intervento?
"È andato bene, ma per valutare l’efficacia devono passare diversi anni. Si è trattato tuttavia di un intervento di routine, la sua eccezionalità risiede in altro".
In cosa?
"È stato un trapianto di rene fatto da vivente. In Italia, storicamente, si attestano in media con una frequenza di 3 interventi per milione di abitanti, recentemente il numero è salito a 6. A confronto con nazioni europee come i Paesi Bassi, che contano 30 donazioni per milione, l’Italia risulta in ritardo".
Cosa frena questo tipo di donazione?
"Nonostante i benefici, vi sono diversi fattori. Culturali, organizzativi, ma anche la limitata possibilità economica del sistema sanitario. In realtà, anche se l’investimento iniziale è elevato, nel lungo termine risulta più conveniente della dialisi. C’è anche il problema del numero limitato di medici e si soffrono ancora gli esiti di una vecchia visione che avrebbe voluto donazioni da vivente e post mortem in competizione. I numeri attuali ci mostrano che un miglioramento è possibile: in un anno vengono eseguiti circa 360 trapianti di rene da donatore vivente e circa 1700 da donatore deceduto. Questo numero corrisponde a quello di nuovi ingressi in lista di attesa ogni anno. Quindi non riusciamo a incidere sulla corposa lista di attesa che conta circa 6 mila pazienti".
Lei parla di benefici?
"La donazione da vivente è raccomandata dalle principali società scientifiche. Offre migliori prospettive rispetto alla donazione post mortem. Inoltre, negli ultimi anni si è assistito a un graduale invecchiamento dei donatori deceduti. A ciò si associano alcune condizioni legate all’età, come l’ipertensione arteriosa, che possono avere un effetto sulla funzione renale".
Chi dona vive di più?
"Il 20% in più. Per due motivi, chi dona deve sottoporsi a check-up medici rigidi. E poi per meccanismi psicologici, i donatori continuano con i controlli di pari passo alla persona cara che ha ricevuto l’organo".