
di Gabriele Galligani
Davanti al suo "studio" a villa Gigliola c’era sempre la fila. Centinaia di persone provenienti da tutta Italia che ogni giorno cercavano il "miracolo" da Mamma Ebe, conosciuta anche come la "Santona di San Baronto". All’anagrafe il nome era quello di Gigliola Giorgini, nata a Pian del Voglio, in provincia di Bologna, il 17 marzo del 1933. E’ morta venerdì nella sua casa di Sant’Ermete (Rimini), a 88 anni.
E’ in Toscana che comincia la sua attività di guaritrice e di fondatrice di ordini religiosi che la Chiesa non riconoscerà mai. Come sede sceglie appunto un bel palazzo sulle colline di San Baronto che diventerà "villa Gigliola". All’epoca il Montalbano non è stato ancora scoperto come meta turistica da tedeschi e olandesi e i cicloturisti sono pochi, ancora meno quelli che sfidano le asperità del San Baronto. La notizia della presenza della "Santona" si sparge velocemente e in tanti si affidano alle sue mani e alle sue preghiere. Lei è abile nel mescolare superstizione e religione. Fonda l’ordine delle "Pie Opere di Gesù Misericordioso" con tanto di suore e seminariste. La gente accorre. Il barista che ha il suo locale all’inizio del monte ormai aveva imparato una frase che ripeteva in continuazione: "Dopo la curva per San Baronto vedrà una villa, e tante macchine parcheggiate sulla strada. Non si può sbagliare". Molti si presentavano con una lettera d’accompagnamento del parroco di provenienza che iniziava con "Reverdissima superiore". Tanto che qualche anno dopo l’allora vescovo di Pistoia, monsignor Simone Scatizzi sarà costretto a emettere un duro comunicato della diocesi che prendeva le distanze dalla Mamma Ebe e la sua "sedicente" congregazione. Ma ormai per il popolo era la "Santona". Capace di guarigioni miracolose. Ormai intorno a lei si era creato un alone di leggenda.
Un’inchiesta della procura di Lucca nel 1980 svelò però che la realtà di villa Gigliola era molto diversa da come appariva. Una donna di San Leonardo in Treponzio, malata di tumore si affidò alle "cure" di Ebe Giorgini. Non si salvò, ma il marito sborsò una decina di milioni di "offerte" e le due figlie e una cuginetta entrarono nell’ordine come "novizie". Una di loro ben presto si rese conto che che a villa Gigliola più che occuparsi dell’anima si doveva servire Mamma Ebe. Più che una suora, una cameriera. La ragazza cercò di scappare, ma venne ripresa e riportata a forza all’interno della comunità. Già, ai giovani veniva impedito di riavere contatti con la famiglia d’origine.
Alcuni genitori si rivolsero proprio a "La Nazione" per denunciare l’accaduto. La procura aprì un’inchiesta e Mamma Ebe venne arrestata per sequestro di persona, truffa e circonvenzione d’incapace. I carabinieri che entrarono all’interno di villa Gigliola, non trovarono però elementi di vita monastica, specialmente nelle stanze della "Santona", ma gioielli, pellicce e bottiglie di champagne. "Mi serve per digerire", disse provando a giustificarsi. Successivamente le venne sequestrato anche uno yacht. Seguirono inchieste di altre procure perchè Mamma Ebe nel frattempo aveva aperto altre "case", a Morlupo, vicino Rona, mentre nel Vercellese la sua congregazione si occupava della gestione di una casa di riposo. Il primo processo, quello che si svolse al Tribunale di Vercelli nel 1984 venne seguito con grande partecipazione popolare. E come ogni processo che si rispetti, c’erano "colpevolisti" e "innocentisti". "Una santa", dicevano i fedeli che non mancavano di seguire ogni udienza. Di tutt’altro avviso i giudici, che la condannarono a dieci anni. Carlo Lizzani ci fece un film, con Berta Dominguez nei panni di Mamma Ebe, che fu presentato al Festival di Venezia. Di lei il regista disse: "Si è inventata un mondo. E lei in parte ci crede. Crede davvero di essere utile agli altri".