MARTINA VACCA
Cronaca

Predarubia al Festival blues: "Una musica di fatica e di poesia"

Saranno loro, il 14 luglio in piazza del Duomo, ad aprire il concerto di Steve Hackett. Il loro album, "Somewhere Boulevard", parla di uomini, di battaglie e di riscatto

Predarubia

Pistoia, 1 luglio 2018 - IL LORO NOME, «Predarubia», è un omaggio ai luoghi della Barbagia dei romanzi di Salvatore Niffoi e, come quelli, le storie che raccontano le loro canzoni sono «terrose», sanno di chilometri camminati, di fatica, ma anche di immensa poesia. Anche la voce del cantante, Giuseppe Pocai, profonda e potente (un po’ Bruce Springsteen dei primi tempi) arriva da lontano eppure è nostrana. Nato in Scozia, ma originario di Castelnuovo Garfagnana, come il resto della band: il bassista Luca Mori, il chitarrista Massimo Triti e il batterista Zivago Anchesi. Saranno loro ad aprire la serata del 14 luglio, in piazza del Duomo, quando si esibirà l’ex dei Genesis, Steve Hackett.

 

Come è nata la vostra band? «E’ nata per caso, nel 2013, anche se ci conoscevamo da tempo – racconta Giuseppe Pocai, voce e frontman del gruppo, che è anche l’autore dei testi e della musica –. Ognuno di noi faceva musica da sempre, io credo da quando sono nato – scherza –. All’inizio eravamo predatori, lo dice anche un po’ il nostro nome, pescavamo le musiche di altri e le facevamo nostre. Poi un giorno, abbiamo trovato quello che serviva: il coraggio».

 

In che senso? «Il nostro primo album è nato proprio così. Quando, un pomeriggio, ho creato una cartella in Dropbox e l’ho chiamata ‘Coraggio’. Dentro c’erano le prime tracce delle mie canzoni. L’ho portata ai ragazzi e da lì abbiamo iniziato a lavorarci. Così è nato ‘Somewhere Boulevard’ (uscito a settembre 2017, Latlantide, nei negozi e su Amazon)».

 

Chi compone la musica e i testi? «Sono io ma le canzoni le firmiamo tutti, questa è la nostra filosofia. Per la Siae, esistono solo armonia, melodie e parole. Per noi è un’esperienza che facciamo insieme». Come nasce una canzone? «Potrà sembrare strano, ma a me viene naturale. Quasi come se dovessi solo trascrivere ciò che ho già dentro. Io sono autodidatta, la musica l’ho amata e l’ho ascoltata fino allo sfinimento. Ogni volta che sceglievo di comprare un cd, da ragazzo, lo portavo a caso e lo finivo, si può dire, per quante volte lo ascoltavo: ogni traccia, fino a impararlo a memoria».

 

Nell’album c’è una canzone, in particolare, «A girl named Hope». Sembra parli di una storia d’amore... «In realtà è una metafora. Si parla delle dipendenze, della seduzione che esercitano su chi ne è schiavo, dell’inganno e le promesse di cedere per un’ultima volta, che alla fine non è mai davvero l’ultima. E’ una storia che ho vissuto in prima persona, sulla mia pelle, nella mia famiglia. Forse per questo sono riuscito a raccontarla con la musica. E poi la musica è sempre stata la mia via di fuga: quando ero ragazzo, mettevo su le cuffie, e in un attimo ero già lontano da tutto, altrove».

 

Cantate in inglese, perché? «Perché è stata la mia prima lingua e per tanto tempo la sola, e per me è stato naturale comporre così. La mia famiglia è stata da sempre ‘nomade’, per necessità, come accade per tutti. Mio padre è emigrato in Scozia e lì sono nato io. In una canzone, ho raccontato anche questo: gli individui hanno viaggiato da sempre, per cercare un futuro migliore. E’ già accaduto e domani sarà lo stesso». E come dice la sua canzone: «cause no one is strange in a world of strangers» (perché nessuno si sente diverso in un mondo che è composto dalle stesse diversità)