Palaia (Pisa), 8 novembre 2024 – “Il mio intento non è quello di trovare un colpevole, ma riportare Elvira a ruolo di vittima”. Con questo obiettivo Bettina Ferretti, pontederese di origine, ora residente a San Miniato, libera professionista nel campo dell’arte, ha presentato alla Camera dei deputati, il suo libro “Corpus Domini. Il caso Orlandini“. Storia vera e conosciutissima come il delitto della Bella Elvira.
La morte, violenta, di una giovane donna di origine contadina, il cui corpo fu ritrovato alla vigilia delle nozze in un bosco a Toiano (Palaia), con la gola tagliata e i segni di altre coltellate inferte dopo la sua morte. Era il 1947, la vittima si chiamava Elvira Orlandini e il suo fu un caso mai risolto. Fu anche un caso mediatico, forse il primo dell’era moderna del giornalismo e catturò l’attenzione di tutto il Paese.
Ferretti, che delitto fu?
“Quello di Elvira è un femminicidio di fatto. Ne ha le caratteristiche. Gli omicidi di uomini avvengono per mano di sconosciuti, malavitosi. Quelli delle donne in condizioni amicali, sentimentali, familiari”.
Perché ha deciso scrivere questa storia?
“Essendo pontederese conoscevo la storia e in famiglia avevano una casa a San Gervasio. Inoltre ho avuto la fortuna di avere due nonni nati nel 1899 e un’altra nonna materna di Peccioli, quasi coetanea di Elvira, che mi hanno parlato spesso di questa storia come una novella. E a sentirla un po’ mi spaventava e non capivo mai cosa era successo davvero. Poi ho chiesto ad alcuni anziani, ma mi davano versioni diverse in base alla loro estrazione culturale. Così, alla fine ho voluto andare a vedere cosa è successo”.
Come si è documentata?
“Ho letto gli atti, dall’istruttoria al processo. L’istruttoria è stata la parte più interessante che ha fornito il vero materiale e non le dicerie di paese, con le quali ci si può fare un’idea”.
Il libro è uscito due anni fa e ha ottenuto dei riconoscimenti. Ora questa importante presentazione a Roma.
“Il libro aveva già avuto un riconoscimento come documento storico da parte del Ministero tramite l’Archivio storico di Firenze. E ora è arrivato il riconoscimento della Commissione giustizia che ha voluto la presentazione a Roma per come è stato trattato il tema mediante la consultazione degli atti giudiziari”.
Cosa ha raccolto con questa esperienza?
“La storia di Elvira è stata funzionale al mio progetto che sto portando avanti con criminologi e psicologi per arrivare a parlare di femminicidio moderno. Tutto questo anche per capire cosa diventano queste storie in mano alla stampa e all’opinione pubblica”.
Che idea si è fatta dell’indagine?
“Nonostante quello che fu raccontato, devo dire che la parte istruttoria, per l’epoca, non fu assolutamente superficiale”.
Perché?
“Faccio degli esempi: un piccolo maresciallo di Palaia, e dico piccolo perché di provincia, aveva fatto i calchi delle impronte. Una tecnica all’epoca all’avanguardia. Addirittura fu fatta un’analisi visiva della macchie di sangue. Una scelta impensabile per l’epoca”.
Il processo di allora si mescolò con dicerie di paese, colpi di scena, accuse poi risultate infondate, lotte di classe e particolari della scena del delitto letti in modo diverso.
“Lasciamo stare le favole che venivano raccontate. Ad esempio il particolare delle mutande che non furono mai trovate accanto al corpo. Nelle analisi, molto scrupolose per l’epoca, non fu contemplata la violenza sessuale. E fu accertato che le mutande le furono tolte dopo che il suo corpo fu trascinato per le caviglie. Qualcuno l’ha tolte, magari per far intendere altri scenari”.
Si è fatta un’idea di chi sia stato il colpevole?
(ride) “Sì, ma non la dirò mai”.
Resterà quindi un delitto irrisolto. Per tutti il mistero della Bella Elvira.
“Il nome “La bella Elvira“ fu una trovata giornalistica, un modo per dire che questa bellezza la rendeva un po’ più colpevole”.