
Gli scarti di lavorazione che si accumulano
Santa Croce, 7 agosto 2018 - Tra i rifiuti di cui la Cina ha bloccato l’import ci sono anche i ritagli di pelle, mettendo in emergenza calzaturifici, concerie e pelletterie del Comprensorio e non solo. Una scelta, quella del governo di Pechino, che sta avendo un impatto forte sull’industria globale del riciclo di cui è parte anche il mondo conciario. Vediamo perché? Molte aziende del Comprensorio, quelle con molti scarti di lavorazione, provvedevano direttamente fino alla fine del 2017 al trasferimento in Cina dove i ritagli più grandi e interessanti entravano nella filiera del recupero a nuova vita della piccola pelletteria (guanteria, portachiavi, borsellini, etc). Ma le cose, appunto, sono radicalmente cambiante in quetsi mesi.
Ora, che la Cina ha chiuso la porta, si è aperto il problema di una crescente richiesta in loco. Problema al quale, paradossalmente, se n’è aggiunto un altro: la forte spinta tecnologica sulla pelle ha portato le concerie a trattamenti importanti – come verniciature o applicazioni – che impediscono l’avvio del materiale agli impianti che li trasformano in prodotto per l’agricoltura. Così da una parte crescono nelle aziende e negli stoccaggi le montagne di ritagli – imponendo un lavoro di selezione capillare e complesso – e dall’altra le vie di sbocco sono oberate di richieste. Per avere un primo quadro del fenomeno, dai numeri importanti, e dai risvolti a medio termine imprevedibili se non dovessero cambiare alcuni scenari, siamo andati a vedere come affrontano la questione in Waste Recycling Spa di Santa Croce, società del gruppo Hera che recupera e smaltisce rifiuti industriali. L’azienda, principale punto di riferimento anche per tutto il comparto pelle della Toscana, dal primo dicembre al 31 luglio ha ricevuto 1.150 tonnellate di ritagli in pelle. «Un’ampia parte, la maggioranza, è stata avviata alla trasformazione in ammendanti e fertilizzanti – spiega Maurizio Signorini, dirigente settore recupero rifiuti solidi e speciali –. Una parte minoritaria è stata mandata alla termo distruzione per essere convertita in energia. Recupero in entrambi i casi, ma con costi diversi».
Ma le cose, intanto sono cambiate. «Ce lo dicono le due grandi montagne di scarti che sono stoccate nei capannoni – dice Signorini –. La richiesta delle aziende è a dir poco triplicata e le difficoltà sono aumentate, anche perché il lavoro di selezione necessario all’avviamento al recupero come fertilizzanti è enorme. Non è poi così liscia neanche la termo valorizzazione, più costosa per le aziende: le capacità di ricezione sono già insufficienti rispetto alla domanda». Poi c’è la Cina. Il Paese dagli anni Ottanta era diventata un grande importatore di rifiuti, che riciclava per farne materia prima. I paesi industrializzati come l’Italia mandavano lì in media la metà o più della loro spazzatura differenziata, come la plastica, la carta e la pelle. Il blocco ha tanti volti. Uno tocca il settore cardine dell’economia della zona. Con effetti che nei prossimi mesi potrebbero diventare importanti.