di Giovanni Rossi
Non si scappa. Da 70 anni la pallavolo è la sua vita, prima da giocatore e poi da allenatore, e adesso che di primavere ne conta 82 gli piace ancora guardare avanti. A Figline, dove nonno Yanko Yankov passa tutti i pomeriggi in palestra come direttore tecnico della "29 Martiri" – oltre 150 ragazzine dalle giovanili ai campionati Fipav e Uisp che ogni giorno occupano sei distinti parquet –, la sua storia è privilegio da acculturati. Le ragazzine pratesi col mito di Paola Egonu e delle azzurre di Julio Velasco neo regine olimpiche forse non immaginano che, ai tempi d’oro, il loro allenatore le suonava all’Italia (e pure al primo Velasco). Basta andare indietro.
La Bulgaria nei cromosomi e nelle nozze con Didi (poi vicesindaco di Sofia), l’Italia luogo dell’anima e di passaporto. Soprattutto la Toscana: terra d’elezione, vezzosamente nel destino a partire dall’imposizione anagrafica. Perché Yanko Yankov (tradotto) significa Giovannino Giovannini, e che un diminutivo possa contenere la sagoma di questo allenatore massiccio, dallo sguardo severo e dalla mascella quadrata, sa già di toscanissima burla. Due sillabe uguali e ripetute, con il fiocco di una consonante, fasciano tutta ‘a criatura, come direbbero sotto il Vesuvio, altro posto dove l’attuale maestro della "29 Martiri" resta scolpito nella memoria. E non solo lì. Perché è un allenatore ‘pesante’, un martello che forgia fisico e fondamentali. Quando arriva in Italia, a Siena, nel 1981-82, allena il Cus in A2, ma soprattutto svezza due talenti come Raimondo Della Volpe e Sandro Fabbrini, ricevitori d’élite con molle sotto i piedi, anni dopo finiti entrambi a Modena.
Quel lavoro certosino non sfugge a chi ha occhi per vedere. Lo vorrebbero ad Asti, in A1. Ma Yankov è un comunista d’altri tempi e tiene fede all’impegno già preso in B a San Giuseppe Vesuviano: società ambiziosa in contesto fragile. Sono gli anni in cui la cintura di Napoli è insanguinata dalla guerra di camorra avviata dal boss Raffaele Cutolo. È una scommessa da pazzi inseguire traguardi pallavolistici in una ristretta area geografica che produce tra 100 e 200 omicidi l’anno e che sportivamente vive solo per il Napoli. Invece San Giuseppe guadagna i tg anche per muri e schiacciate, con due promozioni in quattro anni e una squadra a trazione bulgara dove Yankov è più di un allenatore: è il calcestruzzo che trasforma il piccolo palazzetto in un bunker. In A2 ne fa le spese anche Velasco, appena sbarcato alla guida di Jesi, che nel l’83-84 rimedia sotto il Vesuvio un ko da paura. Poi nel 1985-86 San Giuseppe compie l’impresa e sale in A1. Ma come dice un proverbio ortodosso, i miracoli durano tre giorni. E la massima serie è troppa roba per una realtà lievitata così in fretta.
Yankov passa al femminile. Anzi, ci torna. Lo riporta a casa la nazionale bulgara. Il biglietto da visita sono le tante giocatrici cresciute in gioventù nell’Akademik Sofia, il club universitario con cui già da coach esordiente aveva messo in crisi il tradizionale duopolio di Cska e Levsky (le squadre dell’esercito e della polizia). E così agli Europei del 1989 – immortalato dalla telecronaca di Jacopo Volpi – alla guida della Bulgaria, l’attuale d.t. della "29 Martiri" rifila un 3-1 alle azzurre di Sergio Guerra, l’uomo degli 11 scudetti di fila a Ravenna. Un altro mito battuto (anche se l’Italia poi vince il bronzo).
Il Belpaese richiama. Ma non ai piani alti. Nella pallavolo che sta cambiando, i tecnici come Yankov – tutto arrosto e niente fumo – sono destinati all’emarginazione. Perché non hanno il procuratore e non lo vogliono, e soprattutto non vogliono che siano i procuratori a fare la squadra. Nessun problema. La pallavolo è bella comunque, basta poterla insegnare. Va a Pistoia in A2, poi scende tra i dilettanti, a Pescia, perché il progetto lo convince e lui si diverte portando la società dalla Prima Divisione alla B1. Poi, dieci anni fa, arriva l’ingaggio alla "29 Martiri", la società pratese – oggi guidata dal presidente Massimo Becchi – che ha la Resistenza nel dna e lo sport nel cuore. L’idea è semplice: replicare a Figline il modello di un’educazione pallavolistica diffusa. È quello che avviene. E fa niente se le medaglie adesso diventano altre. Virtuali. Eccole. La quotidiana colonna sonora delle voci e dei palloni. La sintonia con dirigenti appassionati. Un bagher ben fatto. Il sorriso riconoscente di un’allieva. Perché a 82 anni anche il lavoro di ogni giorno può commuovere. E davvero non serve altro se la vita coincide con la propria autentica passione.