REDAZIONE PRATO

A Prato il primo processo alla mafia cinese

Si apre oggi il procedimento per 55 imputati. In 38 devono rispondere del 416 bis: fra loro anche il "capo dei capi" Zhang Naizhong

Si apre oggi il primo processo in Italia che dovrà stabilire se a Prato esiste oppure no la mafia cinese. La famosa inchiesta "China truck" – che nel 2018 portò un vero e proprio terremoto in città con gli arresti eseguiti dalla squadra mobile – sbarca finalmente di fronte al collegio dei giudici di Prato. Il gup di Firenze, a giugno scorso, ha rinviato a giudizio 55 persone – la maggior parte cinesi e sette italiani – con l’accusa di aver messo in atto una serie di azioni criminali a servizio di una organizzazione di stampo mafioso guidata dal temibile Zhang Naizhong che il gip, nell’ordinanza che disponeva le misure cautelari, non esitò a chiamare "il padrino", "l’uomo nero". Dei 55 imputati odierni, ben 38 devono rispondere del reato di 416 bis, l’aggravante mafiosa.

Il processo parte già in salita. A causa dei tanti imputati sarà già complicato fare l’appello, e poi è probabile che ci siano i soliti difetti di notifica e difficoltà con gli interpreti. La macchina organizzativa è complessa e le poche forze a disposizione nel tribunale di Prato non renderanno le cose semplici.

Nel tempo l’inchiesta ha avuto vicende alterne. I fatti a cui si riferisce risalgono ad almeno dieci anni fa, alla presunta guerra fra bande per il controllo del territorio e delle attività più o meno lecite fra cui il trasporto su gomma che dal distretto industriale pratese si diramava in tutta Europa, Parigi in particolare. Le indagini sono durate oltre quattro anni e il fascicolo è passato di mano almeno tre volte fino ad arrivare al pm Eligio Paolini, attuale titolare dell’inchiesta che oggi sarà presente in aula. Gli arresti vennero eseguiti nel gennaio del 2018 quando finirono nelle carceri di massima sicurezza di tutta Italia una ventina di cinesi, fra cui Naizhong, accusati di far parte dell’associazione mafiosa che controllava Prato. Ma la bufera durò poco. Una ventina di giorni dopo il tribunale del Riesame rimise in libertà tutti gli indagati sostenendo che non esistevano gli estremi per parlare di "mafia". La sentenza è stata confermata per ben due volte dalla Cassazione. I difensori faranno leva sulle precedenti sentenze che con un colpo di spugna hanno cancellato il reato più grave, la mafia. Se dovesse venire meno, in alternativa, restano in piedi i reati fine – estorsioni, minacce, rapine, gioco d’azzardo, prostituzione – per i quali incombe già l’incubo prescrizione.

Laura Natoli