Prato, 8 settembre 2024 -
Alberto Magnolfi, nato l’8 settembre 1944.
“Erano le ore terribili successive alla liberazione, i miei erano sfollati in campagna tra Viaccia e Bagnolo e non si riusciva a contattare l’ostetrica che viveva a Galciana. C’era un problema con il cordone ombelicale, arrivò dopo ore d’attesa. Sono venuto al mondo con fatica”.
Com’è nata la sua passione per la politica.
“Ce l’avevo nel sangue fin da bambino. Mio nonno paterno Roberto era stato socialdemocratico, ha cominciato a parlarmi di politica prima che iniziassi la scuola. Nella campagna elettorale del 1953 mi portava ai comizi: mi piaceva molto osservare le reazioni delle folle. E poi leggevo la Nazione, tutti i giorni. Ero curioso di sapere. Ricordo anche che a 12 anni azzeccai la previsione che sarebbe stato Zoli l’incaricato di formare il governo, nella Dc non era un esponente di primissimo piano”.
La sua famiglia di che orientamento era?
“Moderata. Antifascista e non comunista. Nella mia formazione hanno poi contato anche gli ottimi insegnanti”.
Racconti.
“Il maestro delle elementari, ex ufficiale dei bersaglieri, ci parlava della questione di Trieste, che vivevo con grande passione. Alle medie il professore di lettere, Boni, affrontava temi di politica internazionale come se fossimo adulti. Un giorno, uscendo dalla messa in Duomo, accesi la radiolina per sentire il radiogiornale: alla notizia dei carri armati russi a Budapest mi venne da piangere. Poi al classico il professor Ammannati, un maestro di vita oltre che di cultura, che mi aprì alla dimensione sociale”.
La sua prima tessera?
“Psdi nel 1966, ero uno studente di giurisprudenza. Poi ci fu l’unificazione con il Psi, che durò poco. Rimasi nel Psi”.
Chi c’era con lei?
“Giampiero Nigro, Marco Mazzoni, Paolo Benelli, Carlo Montaini, un po’ più grande di noi”.
Nomi di peso della futura classe dirigente della città.
“Eravamo un bel gruppo. Nel 1975 entrai in consiglio comunale e diventai assessore all’urbanistica con il sindaco Landini, dal ’78 fui anche il suo vice. Mi confermò nella seconda legislatura, in cui ebbi anche la delega allo sviluppo economico”.
Poi la Regione.
“Dall’85 assessore alle infrastrutture. In quegli anni si approvò la variante di valico dell’autostrada del sole, il piano ferroviario che portò all’alta velocità e si gettarono le basi di altre grandi opere decisive per lo sviluppo. Nel ’90 fui il primo degli eletti del Psi tra Prato, Firenze e Pistoia: ebbi vice presidenza, sanità e affari istituzionali. Mi impegnai molto per la nascita della nostra Provincia, credo che i fiorentini poi me lo fecero pagare. Ero la figura emergente del Psi toscano. E su sollecitazione di Craxi e Amato mi candidai alle politiche del ’92, con la prospettiva di un incarico nel governo”.
E cambiò tutto.
“Ero convinto di essere eletto. Mi dimisi da consigliere regionale anche se avrei potuto farlo dopo il voto. Sbagliai, ero troppo sicuro di me. Nonostante i miei quasi 18mila voti, passarono Valdo Spini e Riccardo Nencini: i fiorentini fecero quadrato. Ero fuori dal Parlamento e dalla Regione. Tornai a fare l’avvocato a tempo pieno, pensando che avrei avuto presto un’occasione di ripropormi in politica. Invece si scatenò Mani Pulite”.
E crollò la prima Repubblica.
“Il Psi e la Dc finirino nell’occhio del ciclone. Nel ’93 subii la prima perquisizione, per una questione di viabilità di Lucca: si portarono via solo il piano dei trasporti, un documento pubblico. Mi accorsi che i fari si erano puntati anche su di me. E di essere solo. Fu un’estate tremenda per l’Italia: la politica era in mano a un giustizialismo spietato e immotivato”.
Lei come si sentiva?
“Avevo alle spalle due campagne elettorali fatte in maniera hollywoodiana, come si usava a quei tempi, con un comitato che si preoccupava di raccogliere i contributi che venivano registrati e che io non vedevo, né toccavo. Ero tranquillo”.
Invece ci fu l’inchiesta sui lettori ottici.
“Una fornitura deliberata prima che io avessi la delega alla sanità. Il titolare dell’azienda, un pratese, come tanti aveva dato un contributo alla mia campagna elettorale: sono stato trascinato in una vicenda che da un punto di vista giuridico oggi non sta in piedi, mi fecero contestazioni su fatti che non potevano sussitere. Resta per me una ferita atroce. Si mossero due sostituti procuratori, non so quanti agenti vennero a prendermi a casa, con i fotografi arrampicati sugli alberi. Era l’Italia di allora”.
Perché decise di patteggiare?
“Perché non mi fidavo, perché avevo bisogno di vivere, di dare salute alla mia famiglia. Al processo, 5 anni dopo, tutti i miei coimputati vennero assolti. In quel periodo c’era stata una sospensione della democrazia: io ne sono una prova. Questa vicenda è stata una frattura nella mia vita, sono orgoglioso di come l’ho affrontata e superata”.
Ma la politica le mancava.
“Ne sono rimasto fuori per sette anni. Ho maturato una serie di idee sulla sinistra emersa dopo la crisi delle ideologie. Una sinistra che si era legata al più bieco giustizialismo, che aveva fatto strage dello stato di diritto. Una sinistra dal pensiero debole, debolissimo, che ha preteso e pretende di far diventare pensiero unico, dimenticando le radici sociali che dovrebbe difendere. Anche oggi si estremizzano idee giuste, come l’ambiente o l’Europa, che però, se diventano miti a prescindere, creano diseguaglianze e problemi. Un esempio fra i tanti: il mercato spalancato alle auto elettriche cinesi, che sta mettendo in crisi la Germania, quindi l’Europa”.
Così scelse Forza Italia.
“Fu Riccardo Mazzoni, un amico, a cercarmi. Già a fine ’93 da Arcore mi era arrivata la proposta di diventare il coordinatore toscano del partito che stava nascendo, ma ero formato nella vecchia politica: non ero convinto e non presi al volo l’opportunità. Dieci anni dopo era chiaro che il mondo era cambiato. E diventai il responsabile dei dipartimenti di Forza Italia Toscana”.
Nel 2005 di nuovo in Regione.
“Nel 2008 capogruppo, fino al 2010. Nel 2009 l’impegno e la gioia per la vittoria del centrodestra con Roberto Cenni”.
E negli ultimi anni?
“Ho guardato la politica con lo spirito di Orazio. Tengo i suoi scritti sul comodino. Grazie agli insegnamenti del Cicognini, li leggo ancora in latino”.