
di Silvia Bini
Il mercato delle mascherine si esaurisce in una bolla di sapone. Ha già mollato la gran parte di produttori tessili che avevano deciso di riconvertirsi iniziano a produrre presidi di protezione sull’onda dell’emergenza sanitaria. Avevano risposto all’appello lanciato dalle istituzioni e speravano di catturare un mercato nuovo che avrebbe potuto concedere sbocchi occupazionali e guadagno. Così sembrava nei giorni più neri del Covid, con le macchine da cucire che viaggiavano a tutto regime e gli affari che promettevano bene.
A quattro mesi dall’emergenza sanitaria la realtà ha preso però tutt’altra forma: tanti imprenditori tessili che avevano scommesso sulla riconversione hanno dovuto fare i conti con una realtà diversada quella immaginata, fatta di commesse rimaste al palo, bandi pubblici inaccessibili e magazzini con merce invenduta. Dopo Marco Ranaldo, titolare della Pointex che ha denunciato il problema delle aziende che si sono riconvertite e che sono state abbandonate dal governo, anche altri imprenditori gli fanno eco. Il problema? La concorrenza: non c’è nessun canale preferenziale per le ditte italiane che hanno investito e che hanno dato un aiuto nel momento di bisogno. E così, ora, che l’emergenza si è in parte placata, il mercato è tornato al regime di normalità e concorrenza tra il miglior offerente. A queste condizioni non c’è partita con il gigante cinese e con le ditte importatrici che mettono sul mercato materiali prodotti all’estero a prezzi stracciati. Tanto che in molti hanno già alzato bandiera bianca, soprattutto le confezioni che avevano convertito una parte della lavorazione senza fare grandi investimenti in macchinari visto che avevano già a disposizione taglia e cuci. Più complicata la resa per quegli imprenditori che hanno investito aprendo nuovi reparti produttivi. "E’ stata una presa in giro per chi ha investito e si è impegnato nella produzione di mascherine e camici anche per aiutare il Paese in un momento in cui c’era una vera necessità, è una vergogna", si sfoga Rossella Vaiani della Confezione Homo di via Tagliamento. "Dall’oggi al domani il lavoro è finito, gli ordini sono scomparsi. Gli appalti con mercato della pubblica amministrazione, ai quali anche la nostra azienda ha partecipato, se li aggiudicano tutti importatori orientali tanto che abbiamo già smesso la produzione". Nel momento dell’emergenza gli acquisti venivano effettuati direttamente dalla pubblica amministrazione, adesso invece le forniture sono tornate in appalto e il gap tra i costi di produzione italiani e quelli esteri è tornato a pesare come un macigno.
"Avevamo così tanti ordini da non riuscire a soddisfare le richieste, ma ad un certo punto tutto è finito con metri di tessuto che ci sono rimasti nei magazzini e progetti nel cassetto. Avevamo orientato una parte della produzione a questo genere di prodotto tralasciando il resto, ma per cosa?", domanda Vaiani. Stesso copione per la Confezione Aurora che da marzo aveva convertito parte della produzione in mascherine. "Abbiamo chiuso la produzione perché non c’è mercato, ci hanno lasciati soli senza nessun aiuto", dice Luciano Becucci. "Non riusciamo a produrre mascherine a pochi centesimi come quelle che arrivano dall’estero, ci avevamo provato, abbiamo risposto ad un appello dello Stato che chiedeva aiuto e questo è il risultato". Le aziende che hanno investito, che si sono messe in gioco per convertire la produzione e che sono rimaste al palo difficilmente faranno lo stesso in caso di seconda ondata di contagi. E domani il governo a chi andrà a chiedere aiuto?.