di Roberto Baldi
Fummo in cima alle classifiche del tessile; niente autunni caldi, nessun aiuto dello Stato, resistenza all’acrilico alla finta pelle al jersey. Piccole unità lavorative, due sole librerie-cartolerie, Gori e Bertelli, dove i libri si compravano talvolta a secondo del colore in sintonia con l’arredo di casa. C’era anche uno slang del tessile: essere pratesi tanta lana, l’affare gli ingrossa, leva e non metti ogni gran monte ascema. Si credette di aver fatto filotto e pallin di quattro, come si dice nel biliardo, quando salutammo la neonata provincia. Urlò di felicità la “risorta” di Palazzo Pretorio i cui rintocchi dilagano nella piana. “Provincia e campane a festa” intitolava il nostro giornale. Poi la crisi del tessile in omaggio alla globalizzazione neo liberista con diminuzione del busco in mezzo al cosmopolitismo dove rischi di sentirti talvolta più ospite che cittadino. Un si ripiglian pe’ il lesso disse l’imprenditore, finché il diminuito ritmo della spola ha indotto Prato a riconsiderarsi, a cominciare dalla fabbrica, utilizzando il riusato, e nel tempo libero, un termine che a Prato non ebbe mai cittadinanza, interrogandosi sul messaggio dell’arte, recuperando la nostra voglia di rimescolarsi con i ristorantini mordi e fuggi, riaprendo Politeama e Sala Garibaldi nella strada chiamata un tempo via de’ Sarti, allora piena di venditori di sommommoli e addormentasuocere. Abbiamo rischiato di fare come il prete Peo che invece d’andare avanti andava all’indreo. C’è tanto da fare ancora. Buschiamo di meno ma tentiamo di riprendere in mano la vita.