REDAZIONE PRATO

Vanno in vacanza e lasciano il cane in una struttura. “Morto di stenti”, risarcimento da 30mila euro

Il dolore di una famiglia pratese. L’animale era stato lasciato in una struttura a Calenzano. La motivazione del giudice: “A carico della coppia e dei loro figli una forte sofferenza e un profondo patema d’animo”

Un cane Samoiedo in una foto d'archivio

Un cane Samoiedo in una foto d'archivio

Prato, 1 febbraio 2025 – Il dolore per la perdita dell’amato amico a quattro zampe costituisce un “danno morale”. Soprattutto se l’animale è stato lasciato morire di stenti in una struttura a cui era stato affidato durante le vacanze estive. E’ la sentenza civile che il giudice di Prato, Giulia Simoni, ha emesso nei giorni scorsi sul caso di una famiglia pratese che ha perso il proprio cane, un esemplare di Samoiedo, nel periodo in cui era stato lasciato in un canile di Calenzano. Il giudice ha così condannato il gestore della struttura a risarcire l’intera famiglia, che “ha patito la perdita dell’amato animale”, con 30.000 euro: 1.300 per il danno patrimoniale, 6.000 alla madre e 4.000 ciascuno per il marito e i due figli, oltre alle spese accessorie.

Una maxi condanna motivata dall’atteggiamento che il proprietario della struttura di Calenzano avrebbe tenuto quando aveva in custodia il cane.

I fatti risalgono all’estate del 2021 quando la famiglia decide di lasciare l’animale nella struttura per cani a Calenzano per andare in vacanza. Sicuri che l’animale fosse in buone mani sono partiti sereni.

L’amara scoperta l’hanno avuta solo quando sono tornati a prenderlo. Ad avvertirli che il cane, nel frattempo, era morto è stata la polizia municipale. Quando sono andati alla struttura hanno trovato il cane coperto da un telo e buttato in un campo. Secondo quanto ricostruito, l’animale si era sentito male e il gestore del centro non si era preso cura di lui. L’animale era stato colpito da diarrea ed era completamente disidratato. Secondo quanto sostenuto nella sentenza, il gestore “non ha approntato le misure necessarie per evitare che, anche in considerazione del clima, caratterizzato da elevate temperature, si ammalasse, per esempio assicurandosi che le fosse somministrato cibo idoneo e che potesse abbeverarsi regolarmente con acqua fresca”. La famiglia ha dimostrato, durante il procedimento, che l’animale faceva parte integrante della famiglia ed era considerato un suo membro a tutti gli effetti. “Si presume – scrive ancora la giudice – che dalla morte del cane siano derivati a carico della coppia e dei loro figli una forte sofferenza e un profondo patema d’animo. Una sofferenza interiore acuita da un senso di stupore, incredulità e tradimento, che il gestore ha contribuito a generare”.