Prato, 20 marzo 2018 - Gli imprenditori stranieri che hanno attività produttive in Italia, dove impiegano lavoratori, hanno il dovere di rispettare le norme sulla sicurezza e contro gli infortuni anche nel caso in cui la produzione avvenga in fabbriche, capannoni o locali presi in affitto e già in cattive condizioni. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni di conferma delle condanne, scontate di un terzo per il rito abbreviato, nei confronti delle sorelle Lin Youlan e Lin Youlin, responsabili della morte di sette operai della confezione Teresa Moda in via Toscana al Macrolotto, andata a fuoco il primo dicembre 2013, nel più grave incendio che il distretto tessile pratese ricordi.
Le sorelle Lin hanno sostenuto di aver affittato il capannone in pessimo stato e di non conoscere la lingua e le leggi italiane, ma la tesi non ha convinto i supremi giudici. Con processo separato, sono stati condannati in Appello a quattro anni anche i due proprietari italiani del capannone che ospitava la confezione cinese.
Cinque uomini e due donne, tutti cinesi, alcuni con regolare permesso di soggiorno e altri senza documenti, morirono mentre dormivano nei loculi ricavati in un soppalco abusivo allestito nel capannone preso in affitto dalle Lin che, rileva la Suprema Corte, trattavano gli operai in modo «disumano», sia per l’orario di lavoro massacrante sia per la paga da miseria.
Lin Yuolan, la reale titolare della ditta, è stata condannata a otto anni e otto mesi di reclusione, sua sorella a sei anni e dieci mesi. Respinta dagli ermellini la richiesta di riduzione della pena avanzate dal difensore, l’avvocato Gabriele Zanobini. Dopo aver scontato circa dieci mesi agli arresti, alle due donne è stato revocato il divieto di espatrio e sono tornate in Cina promettendo di tornare in Italia in caso di condanna definitiva, ma ancora non sono tornate nonostante la sentenza sia arrivata più di un mese fa. Oltre alle accuse di incendio e omicidio colposo plurimo, violazione delle norme di sicurezza e di tutela sul lavoro, le sorelle Lin sono state condannate per «favoreggiamento di permanenza illegale di soggetti clandestini al fine di ingiusto profitto».
In proposito, i supremi giudici sottolineano che «l’approfittamento della condizione di clandestinità di almeno una parte dei dipendenti della ditta, in base al quale venivano imposte condizioni di lavoro ed economiche ben al di sotto» del «normale» contratto di categoria, «integra il dolo specifico del fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri».
Il reato sussiste anche nel caso in cui «analoghe condizioni sarebbero state praticate pure nei confronti di dipendenti in regola con il permesso di soggiorno», ha spiegato la Cassazione respingendo la tesi difensiva per cui la misera paga data a tutti avrebbe scagionato le Lin dall’aver violato la legge sull’immigrazione. «Il fatto che venissero oggettivamente sfruttati anche gli operai regolari (per ragioni che possono essere le più varie) significa unicamente che vi era un identico, disumano trattamento tra tutti i lavoratori operanti nel capannone», conclude la sentenza. Confermata la costituzione di parte civile del Comune di Prato, della Cisl di Firenze-Prato e dell’Inail.