LUCA BOLDRINI
Cronaca

Davide Chen, lo chef che mette tutti d’accordo. "L'integrazione nasce a tavola"

Uno chef di origine cinese, ma in tutto e per tutto toscano. E che ha già saputo conquistare le due anime di Prato con i suoi piatti

Davide Chen (foto Attalmi)

Prato, 8 dicembre 2019 - Da che mondo è mondo, gli affari migliori si fanno a tavola, perché davanti a un buon piatto e un buon vino è tutto più facile. Perché non dovrebbe valere lo stesso per l’integrazione culturale? E allora, se mai ci fosse bisogno di un ’sacerdote’ per questo tipo di rito, non potremmo trovare esempio migliore di Davide Chen, 33 anni, chef del MySea Bistrot di via Benvenuto Cellini. Un ristorante che è già un piccolo caso, del quale poche settimane fa si sono interessate anche le telecamere Rai di «Linea Verde»: qui Italia e Cina si incontrano in tutto e per tutto, dalla proprietà (50 e 50 fra italiani e cinesi) alla clientela, equamente divisa. La sintesi perfetta è Davide. Che sia cinese di origine lo si vede alla prima occhiata, che sia altrettanto toscano lo si capisce ascoltandolo. Fiorentino per la precisione, di adozione nel vero senso della parola, tanto che si trova al centro di un equivoco.

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Qual è l’equivoco? «Quando i clienti cinesi capiscono che non parlo nemmeno una parola della loro lingua è sempre molto divertente. Per loro è davvero inconcepibile che io non conosca il mandarino».

Come nasce lo chef Chen? «Qui a Prato sono arrivato con l’apertura del locale. Prima sono stato a Badia a Passignano, una stella Michelin, poi dopo qualche anno insieme ad alcuni amici abbiamo dato il via all’Ortone, in centro a Firenze, lì era una famiglia e ci sarei potuto rimanere a vita. Però mi mancava qualcosa e così sono andato due anni a Londra. Troppo stress e sono tornato di corsa in Italia, prima di nuovo dalla famiglia Antinori, poi Simone Cipriani mi ha chiamato per l’apertura dell’Essenziale. A un certo punto ho detto basta, serviva una pausa. Alla fine la chiamata pratese».

E il debutto? «Ho iniziato a 17 anni, durante le stagioni, all’Osteria di Passignano: era uno stage obbligatorio fra la quarta e la quinta superiore. Due giorni dopo la maturità mi hanno fatto il contratto di apprendistato».

Serve la scuola, la cucina non è per autodidatti. «Io la consiglierei. Entrai al Buontalenti di Firenze perché non avevo voglia di studiare e all’epoca l’alberghiero era visto così. Poi però ho avuto la fortuna di incontrare qualcosa di fondamentale per questo lavoro: la passione per quello che fai e per come lo fai».

Il talento però c’era, da qualche parte. «Se non trovi persone che lo coltivano e lo formano, il talento da solo non serve a niente. Io ho avuto la fortuna di avere grandi maestri, grandi amici e una grande squadra, perché in questo lavoro non vai da nessuna parte senza una squadra».

E dove, meglio di Prato, si sposano tradizioni diverse? «Qui si coniugano le due culture, che hanno molti punti in comune. Ma di fusion, nella mia cucina, c’è molto poco, perché io sono cinese all’esterno ma non parlo una parola di cinese, sono di tradizione fiorentina. Poi che ci siano ingredienti o metodi di cottura tipici della cultura cinese, va benissimo. Io e il mio secondo Roberto Lin siamo italiani con aspetti cinesi. E in brigata c’è un ragazzo di Quarrata, uno italo-marocchino, in sala una ragazza turca e una albanese, nate e cresciute qui. Si parla tanto di integrazione, il melting pot noi lo siamo nei fatti. E in tutti i ristoranti è sempre più così».

L’impatto con la città? «Ho avuto una grande fortuna, tanti colleghi che appena sono arrivato mi hanno accolto e mi hanno fatto sentire a casa».

E’ più facile integrarsi a tavola? «Sì, stare a tavola è condivisione e convivialità, quindi è più semplice fare integrazione con la cucina. Siamo arrivati ad avere una clientela metà italiana e metà orientale, all’inizio lavoravamo quasi solo con i cinesi».

Quali sono le differenze fra i pratesi e i cinesi attorno a un tavolo? «Le tavolate cinesi sono conviviali, rumorose, allegre, come erano un tempo quelle italiane, che adesso sono più composte. Gli italiani si fanno un po’ meno guidare nella scelta, i cinesi sono più aperti alla novità. Gli orientali, poi, amano i tavoli tondi perché più conviviali. Mangiano pesce crudo a nastro. E poi c’è la spina nel fianco delle cotture di pasta e risotto... Per i cinesi vanno serviti molto avanti di cottura, al dente per gli italiani».

E poi c’è il sale... «Ci ho sbattuto la testa per quattro mesi prima di trovare un equilibrio. Il palato orientale non ha percezione del sale, loro usano un esaltatore di sapidità come il glutammato di sodio, quindi se sali l’acqua della pasta è sempre e comunque troppo. Quindi dividiamo le comande per accontentare i clienti». © RIPRODUZIONE RISERVATA