
di Laura Natoli
PRATO
I cinesi intesi come guadagno sicuro. Perché hanno soldi e tanti contanti. E spesso non hanno tutte le carte in regola. Una logica che fa cadere in tentazione tanti di coloro che hanno a che fare con loro. Uno schema che si ripete da anni e che ha avuto l’ennesima conferma con l’operazione della guardia di finanza ("Easy Permit") che mercoledì mattina ha portato all’esecuzione di otto misure cautelari (sette ai domiciliari e un obbligo di firma) nei confronti di consulenti del lavoro, commercialisti e professionisti di centri di elaborazioni dati che confezionavano documentazione ad hoc per ottenere permessi di soggiorno, eludere tasse e pagamenti di contributi e far sparire agli occhi del fisco intere aziende. Nella maxi inchiesta dei sostituti procuratori Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli figurano ben 210 indagati fra colletti bianchi italiani e cittadini cinesi (imprenditori, mediatori, prestanome, lavoratori di ditte fantasma) che avevano messo in piedi un oleato sistema criminale per continuare a operare nella più totale illegalità. I cinesi ottenevano quello che volevano (i permessi), gli italiani si arricchivano. "I tratti della presente vicenda criminale, purtroppo, non appaiono essere caratterizzati da novità", è l’amaro commento che il gip Francesco Pallini esprime nella corposa ordinanza che dispone la custodia cautelare. Una goccia nel mare, anche perché il fenomeno è molto più esteso di quello che si possa pensare: con i nuovi 210 indagati si è aggiunto aolo l’ennesimo tassello che dimostra come la comunità orientale non rinunci a lavorare nell’illegalitàe che, anzi, è la conferma di quanto il sistema sia esteso. E’ lo stesso giudice a prenderne atto. Quando infatti inizia ad analizzare le varie posizioni non può fare altro che ricordare come un’inchiesta del tutto simile fosse già stata fatta cinque anni fa. "Questa indagine – scrive il gip – non rappresenta un’assoluta novità per il nostro circondario. L’autorità inquirente, nel recente passato, ha già trattato una vicenda del tutto analoga". Il riferimento esplicito è all’inchiesta che ha portato alla luce la connivenza fra colletti bianchi e imprenditori cinesi. Il copione si ripete. L’inchiesta era quella del 2016: una stuolo di professionisti con studi tra Prato, Pistoia e nel Nord Italia (tra cui quello del consulente Filippo Rosini e del commercialista di Verona Alberto Robbi) che confezionavano i famigerati kit da presentare in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno. Documenti che il più delle volte erano fittizi. Un kit poteva costare fino a 1500 euro. Il giro era stato messo su grazie alla collaborazione di intermediari cinesi che fornivano i clienti agli studi professionali e con i quali venivano spartiti i guadagni. Ecco la palude più volte ricordata dal procuratore Giuseppe Nicolosi, una zona d’ombra in cui i cinesi riescono a vivere nell’illegalità grazie alla collaborazione di professionisti italiani. Il processo a carico di Robbi è in corso (a dicembre ci sarà la discussione) mentre per Rosini non si è ancora celebrata l’udienza preliminare. Sono inchieste e processi mastodontici che spesso hanno difficoltà ad arrivare a termine anche a causa della prescrizione. Nel 2016 era emerso che i colletti bianchi costituivano a tavolino la documentazione per far sparire dal fisco aziende intere. Come nell’ultima inchiesta: sono state trovate tracce di ditte completamente fantasma, intestate a prestanome, nelle quali figuravano una miriade di dipendenti, alcuni dei quali anche titolari di fatto di aziende reali e in attività. Scatoloni vuoti che formalmente venivano chiusi dopo due o tre anni per restare estranei al fisco. Con la connivenza degli italiani l’illegalità ha fatto un balzo in avanti e la lotta è diventata ancora più dura.